La nonviolenza, come modello di analisi e come strategia nella gestione dei conflitti sociali, si fonda su 3 principi fondamentali, che hanno bisogno di essere compresi e coltivati ugualmente e allo stesso tempo. Essi sono:
1) la comprensione dell’intrinseca uguaglianza di tutti gli esseri umani;
2) la relazione di interdipendenza che li lega gli uni agli altri e all’ambiente che li circonda;
3) quell’attitudine di gentilezza che mira a sostituire la rabbia, l’insoddisfazione, il rancore e l’odio, con capacità di relazione più lungimiranti ed efficaci.
Perseveranza e impegno
La nonviolenza deriva da un approccio realistico alla natura sociale e alle caratteristiche psicologiche di tutti gli esseri umani, dalla comprensione di ciò che è maggiormente conveniente alla creazione di solide e durature basi di rispetto e collaborazione. Tutti gli esseri cercano di essere in pace, con se stessi e con gli altri: è un desiderio condiviso e universale. Nel processo di socializzazione alla nonviolenza si scopre di riuscire ad avere migliori relazioni, a gestire in modo più efficace i conflitti, a creare una realtà migliore. La nonviolenza è universale poiché si indirizza e si adatta alla natura e al potenziale dell’essere umano, al di là di qualsiasi differenza di etnia, credo religioso o cultura. Questo è il motivo per il quale, ad esempio, compare nelle tradizioni spirituali, religiose o sapienziali di tutto il mondo. Essa è quasi sempre efficace, ma richiede perseveranza e impegno, e deve essere adottata perché se ne valuta la maggior validità e convenienza, non perché qualcuno, anche molto autorevole, se ne fa portavoce. In particolare, è infinitamente adattabile e rilevante in tutte le situazioni. Ci fa capire e percepire il potere, personale e collettivo, di influire sui cambiamenti sociali.
Lotta nonviolenta
La nonviolenza non è l’antitesi letterale e simmetrica della guerra. Essa è una lotta continua contro le situazioni circostanti, le leggi esistenti, le abitudini altrui e proprie, anche contro il proprio animo e il subcosciente, contro i propri sogni. La nonviolenza significa esser preparati a vedere il caos intorno, il disordine sociale, la prepotenza dei malvagi. La nonviolenza non è inerzia di fronte all’ingiustizia, non è soltanto rifiuto della violenza attuale, ma è diffidenza contro il risultato ingiusto di una violenza passata. Quanto più di violenza è carico un regime capitalistico o tirannico, tanto più il nonviolento entra in stato di diffidenza verso di esso. La nonviolenza è prova di certezza e razionalità interiore, di forza. La persona che abbraccia questa filosofia deve conoscere le ragioni della violenza, per individuarne la tipologia implicita che si ammanta di legalità e smascherarla con forza. Non è l’atto di nonviolenza per se stesso, ma tutto ciò che sta con esso e all’origine di esso che può costituire un valore. L’animo, l’intenzione, l’amore, gli sforzi fatti, quanto di proprio sacrificio ci sia stato messo: qui è il valore sia dell’atto di violenza che dell’atto di nonviolenza.
Regimi e leader
La nonviolenza è attuazione individuale. La radice della nonviolenza sta nell’essere tale internamente, prima dell’atto rivolto agli altri. Questo conferma che la nonviolenza non è un atto puntuale, ma una disposizione, una formazione, un’educazione, un’intenzione, un insieme. Nell’azione nonviolenta non si parte dall’assunto che l’opponente si asterrà dall’utilizzare metodi coercitivi. La tecnica è pensata per operare contro la violenza quando ciò è necessario, e storicamente è stata utilizzata anche contro i regimi. L’azione nonviolenta non è limitata a conflitti che si verificano all’interno di sistemi e ordinamenti democratici. Infatti, è stata largamente utilizzata contro regimi dittatoriali, occupazioni straniere e anche contro sistemi totalitari. Inoltre, ci sono molti esempi di azioni nonviolente poste in essere in modo efficace senza una leadership centralizzata (ad esempio, nel 2000 in Serbia contro Slobodan Milosevic). Al contrario, l’esclusiva dipendenza da un leader carismatico può addirittura essere deteriore per il successo dell’azione, in assenza di un’ampia diffusione delle competenze necessarie a gestirla.
La nonviolenza e la società
Per parlare di pace non basta che non ci sia la guerra. Non è soltanto un fragile equilibrio basato sull’ostilità reciproca: il vero significato della pace è quello di uno stato di tranquillità fondato su un profondo senso di sicurezza che nasce dalla mutua comprensione, dall’ascolto di opinioni diverse, dal rispetto della dignità e dei diritti di tutte le parti in causa. La pace è qualcosa che non può esistere in modo indipendente da noi, così come accade per la guerra. Le armi hanno bisogno di essere costruite e una volta costruite di essere utilizzate da qualcuno per poter esplicare la loro funzione distruttrice. I conflitti armati in cui vengono utilizzate hanno bisogno di individui che li alimentano. La pace a livello macroscopico dipende da quella che esiste all’interno delle singole persone, i conflitti esterni sono lo specchio deformato di tutti i conflitti e di tutta la violenza presente all’interno degli individui. Gene Sharp, all’interno del suo libro The politics of nonviolent action, tradotto in italiano sul sito dell’Albert Einstein Institute, indica quali siano alcune delle componenti fondamentali per l’efficacia e il successo delle azioni nonviolente.
Le condizioni dell’efficacia e del successo
Dare inizio ad una campagna nonviolenta è una impresa molto seria. Si è spesso sottolineata la cura meticolosa con cui Gandhi preparava i suoi piani. A questo fatto molti attribuiscono gran parte dei suoi successi. Qualunque sia il numero dei partecipanti ad un’azione, è sempre necessaria una preparazione attenta. Questo non sempre è accaduto. Anzi, sostiene Sharp, le campagne nonviolente “sono sempre state caratterizzate da una preparazione inadeguata“. A volte lo spontaneismo che le caratterizzava le portava ad esaurirsi per indifferenza o per crescita incontrollata con conseguente passaggio alla violenza. Uno schema di preparazione, secondo Sharp, può essere questo: ricerca (investigation), coscientizzazione (generating cause-consciousness), negoziati (negotiations). La ricerca preventiva e accurata sulla natura delle ingiustizie lamentate rafforza il movimento nonviolento, mentre nessuna cosa può indebolirlo tanto quanto la scoperta che i militanti non conoscono realmente i fatti come stanno o non hanno un’informazione accurata della situazione che denunciano. Dopo che è stata fatta la più ampia ricerca possibile, si deve dare la più ampia pubblicità alle informazioni raccolte indicando le lamentele e gli scopi del gruppo nonviolento. Questa diffusione delle informazioni rappresenta la fase della coscientizzazione che da sola può spingere al cambiamento, e comunque rafforza i nonviolenti. Ciò che risulta poi necessario è l’organizzazione. Essa è necessaria perché ci sono compiti specifici da svolgere e decisioni da prendere che non possono essere affidati al caso: tenere collegamenti, raccogliere informazioni, reclutare nuovi partecipanti, addestrarli, conservare la disciplina nonviolenta, rendere possibile la continuazione della lotta dopo l’arresto dei capi.
Leadership condizionata
Il carattere nonviolento influisce anche sul tipo di leadership. Mentre la violenza tende a creare una leadership più autoritaria, non democratica, persino brutale, nell’azione nonviolenta sono i volontari ad accettare una leadership se ne percepiscono le qualità personali e la saggezza nel formulare i piani. Tra le qualità di un leader nonviolento, Richard Gregg annoverava: l’amore, la fede, il coraggio, l’onestà, l’umiltà. Sharp aggiunge altre qualità importanti: l’intelligenza attiva, profonda conoscenza del metodo nonviolento, capacità di elaborare strategie intelligenti, capacità di capire l’avversario (la sua psicologia, le sue risorse, i mutevoli punti di vista dei suoi sostenitori), disponibilità al sacrificio e a dare l’esempio. Gandhi riteneva che, se si vuole evitare la tentazione di ricorrere alla violenza in momenti di crisi, la direzione del movimento debba essere nelle mani di chi crede nella nonviolenza come principio morale. Comunque è chiaro che solo chi ha compreso a fondo le condizioni della nonviolenza può spiegarle agli altri e vigilare perché tutti siano sulla strada giusta.
L’importanza della strategia
Lo sviluppo e l’applicazione di una giusta strategia è di fondamentale importanza nell’azione nonviolenta. Tuttavia, ben raramente coloro che tentano di usare questo tipo di lotta riconoscono pienamente l’estrema importanza di preparare un piano strategico complessivo prima di agire. Per varie ragioni, i rappresentanti della resistenza spesso non tentano neppure di pensare e progettare una strategia per realizzare concretamente il loro obiettivo. Il risultato di tale mancanza di progettazione strategica riduce drasticamente le possibilità di successo e a volte le elimina totalmente, poiché non dispongono di nessun piano su come usare le proprie risorse nel modo più efficace allo scopo di conseguire praticamente l’obiettivo del conflitto. Le loro azioni sono inutili. I sacrifici risultano vani a tutto svantaggio della loro causa. Al contrario, la formulazione e l’adozione di valide strategie aumenta le possibilità di successo. La forza e le azioni di ciascuno si concentrano al servizio dei principali obiettivi strategici.
Francesco D’Ambrosio
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Hr specialist, orientatore e giornalista pubblicista laureato in Sociologia con lode. Redattore capo di Sociologicamente.it.
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