Rintracciare le fondamenta di un fenomeno assai complesso come il capitalismo non è affatto opera semplice. Sebbene attorno al concetto di “capitalismo” si siano sviluppate diverse correnti interpretative; riguardo la sua genesi nessuno, forse, si era spinto così in là come il sociologo tedesco Max Weber. Egli è pervenuto ad azzardare un legame piuttosto improbabile tra economia e società che, di primo acchito, è inusuale da aspettarsi. Più che tra economia e società (che rimane ancora piuttosto generale come coppia di categorie), a proposito del lavoro svolto da Weber, dovremmo riferisci al legame instauratosi da fenomeni economici (come il capitalismo, appunto) e fenomeni riguardanti la sfera religiosa (attinenti alla dimensione del sociale), come andremo a vedere più avanti.

Il filosofo e sociologo tedesco Max Weber

Capitalismo: una definizione

Mentre Marx e i marxisti ritengono che determinare il capitalismo sia essenzialmente un’operazione da attribuire praticamente all’antagonismo che si ha tra i gruppi sociali – borghesia capitalistica detentrice dei mezzi di produzione e proletariato industriale detentore della sola prole –, Weber perviene a una definizione che fa leva non più sui rapporti di produzione sussistenti tra questi gruppi antagonisti, bensì egli si focalizza sulle caratteristiche dell’agire imprenditoriale proprio dell’attore, il capitalista. Ciò è, come si può scorgere, in linea con il suo approccio teorico: l’individualismo metodologico.

Ebbene, Weber perviene alla seguente definizione di capitalismo:

Ci troviamo davanti al capitalismo là dove, in un’economia di produzione, il soddisfacimento di un gruppo umano si fa tramite l’impresa, poco importa quale sia la natura dei bisogni da soddisfare; e, specialmente, l’impresa capitalistica razionale, è un’impresa che comporta un calcolo dei capitali, cioè un’impresa di produzione che controlla il rendimento col calcolo, grazie alla contabilità moderna e all’impostazione di un bilancio […].

(cit. in Rutigliano, Teorie sociologiche classiche, Bollati Boringhieri, p. 204)

Come si può osservare da questa definizione, la dimensione che Weber rintraccia è quella dell’agire individuale e, inoltre, quella del punto di vista dell’imprenditore capitalista; diversamente da Marx che predilige un punto di vista proletario. Oltre a ciò, dobbiamo sottolineare gli aspetti più caratterizzanti il concetto di capitalismo emersi da questa definizione.

Allora, in primis, troviamo una forte attenzione prestata al soddisfacimento di bisogni, motore di qualsiasi attività economica, che secondo Weber non differisce da una qualsiasi altra attività orientata alla produzione di ricchezza (in altre parole, non è questo o quel bisogno da soddisfare che determina l’attività economica per sopperire a queste o quelle necessità; in fondo, l’attività imprenditoriale spazia di ramo in ramo rispetto alla domanda di beni o servizi); poi, l’“impresa capitalistica razionale” definisce il modus operandi dell’imprenditore e degli investimenti: il modello è quello della razionalità: calcolante, sinottica, incrementale, ecc. (poco importa se questa razionalità sia effettiva ed efficace, in un secondo momento); quanto al calcolo dei capitali, si deve porre particolare attenzione, come il lettore avrà intuito, alla questione della contabilità che, esercitata tramite il bilancio d’impresa, contribuisce a dare vita all’attività imprenditoriale che, per sopravvivere e resistere agli shock a cui è sottoposta per opera del mercato, deve far fronte ai problemi in modo oggettivo e non può permettersi di non adattarsi agevolmente all’ambiente esterno.

L’intuizione di Weber

A questo punto, delineata la sua natura, non resta che interrogarci sulla genesi di questo fenomeno che abbiamo chiamato “capitalismo”. Anche se, apparentemente, il capitale sembra un’invenzione recentissima nella storia (per intenderci: verso gli ultimi due secoli di storia), esso prende le mosse da comportamenti che prima nulla sembravano avere a che fare con l’atteggiamento, la proiezione futuristica inconscia, del capitalista. È questa l’intuizione di Max Weber: secondo il suo schema di interpretazione la nascita del capitalismo è attribuibile a comportamenti di natura pragmatica che, però, hanno una matrice religiosa; e quale, tra le religioni cosiddette universali, ha un impianto comportamentale di forte tensione con il futuro, di redenzione tramite il proprio agire nella vita pratica?

Be’, è facile accorgersi che tra le religioni di cui siamo a conoscenza, stiamo parlando del cristianesimo nella sua variante protestante – il protestantesimo –, la cui visione prescrive che per ottenere la redenzione da Dio occorre mantenere una metodica di comportamento di successo nell’ambito del lavoro. Naturalmente, si tratta dell’interpretazione che i fedeli ne davano. Non è possibile asserire, sociologicamente parlando, che questa sia la vera interpretazione degli scritti cristiani; piuttosto, possiamo affermare che questa era l’impostazione che i fedeli avevano a riguardo, una delle tante interpretazioni che si possono dare degli scritti religiosi. Per questo, si andò strutturando un atteggiamento di deferenza verso il lavoro come vocazione, che, Weber, chiama con il termine Beruf (termine tedesco che indica la “professione come vocazione”). Il Beruf era, possiamo dire, un modo per scoprire la propria sorte da parte dei fedeli, una modalità di accesso alla volontà divina; se, in altre parole, l’uomo era dannato o salvato.

Martin Lutero

Ma tutto ciò cosa c’entra con il capitalismo? Ecco, secondo Weber, esisterebbe un nesso tra l’agire dei religiosi, dei credenti, e quello del lavoro come “impegno”, “dedizione” e, in definitiva, come Beruf, come abbiamo già detto. Questo nesso, secondo il sociologo tedesco, sarebbe da rintracciare nell’agire dei credenti che, senza intenzionalmente volerlo, avrebbero sviluppato una metodica di comportamento confacente al reinvestimento del profitto accumulato nella propria attività di impresa. In pratica, si trattava di un comportamento che faceva sì che gli attori vedessero nel successo (nel profitto) la luce della propria redenzione, della salvezza, dello scrutinio della propria sorte, così come Dio aveva deciso.

In questo tipo di agire Weber intravede la genesi di quello che sarà poi il comportamento razionale rispetto allo scopo per eccellenza: l’agire capitalistico, cioè il reinvestimento del profitto ad infinitum, è quel tipo di agire che sarà propriamente caratteristico del capitalista. In ciò risiede la fondamentale intuizione di Weber: in quello che sembrava essere un agire non razionale, anche se solo in apparenza, si configura come un agire coscientemente intenzionato in vista di uno scopo che, in realtà, ha finito per dare effetti di retroazione in altri ambiti del sociale, come quello economico. Dobbiamo approfondire questo aspetto; non prima, però, di aver dato un commento al metodo.

Il metodo: la teoria degli ideal-tipi

Finora abbiamo investigato il processo attraverso il quale Weber giunge all’attribuzione causale – non unilaterale, né deterministico (naturalmente è bene ricordarlo al lettore che non conosce approfonditamente l’autore) – della sua teoria sulla genesi del fenomeno capitalistico; ora, tocca spiegare più nel dettaglio l’opera di Weber che, sia nella Sociologia delle religioni, ma soprattutto ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, chiarisce, con la trasparenza che lo contraddistingue come scienziato di tutto rispetto, i punti (o i fattori) che favorirebbero certi comportamenti sociali, come l’attività imprenditoriale del capitalista.

Il metodo che viene utilizzato è quello secondo cui, come Weber ha usato fare per tutte le sue ricerche, il ricercatore costruisce degli strumenti concettuali – detti tipi “ideali”, o tipi “puri” come lui stesso ribadisce verso la maturità del suo pensiero – che gli permettono di dedurre le proprietà emergenti che nella realtà empirica sono più frequenti e salienti. In altre parole, a partire da questi “tipi ideali”, Weber definisce il concetto di “capitalismo” rigorosamente, così come per l’“etica protestante”, e da queste definizioni individua delle regolarità empiriche attraverso le quali sistematizzare la realtà esterna, fatta di complessità e caoticità, elementi che Weber tiene in ferma considerazione (e che, necessariamente, condizionano il suo apparato epistemologico-logico, oltre che, come chi se ne intende un pochino si può accorgere, anche la sua metodologia).

Il raccordo economia-religione

Il contesto entro cui prende le mosse la ricerca weberiana è quello descritto in precedenza: Weber ha dato una definizione di capitalismo, che abbiamo analizzato con cura; sulla scia degli interessi del ricercatore abbiamo cercato di ripercorrere il processo di ricerca, collegandoci alla questione scientifica del metodo, non di poco conto; ora, non ci resta altro che capire un po’ più a fondo la natura del capitalismo e della sua origine religiosa. È giunto il momento di chiarire il nesso logico che Weber ha individuato tra religione ed economia.

Anche se, apparentemente, la condotta del capitalista odierno nulla ha a che fare con quella di un protestante ascetico, bisogna capire perché, in origine, quella che sembra essere una “proiezione futuristica” del capitalista, come l’abbiamo chiamata sopra, ha qualcosa in comune con l’atteggiamento di un religioso. E, se esiste questo elemento comune, di cosa si tratta? Be’, Weber, analizzando centinaia di documenti inerenti pastori protestanti e (lo si tenga bene presente!) le loro credenze, accomuna agli uni – i capitalisti – e agli altri – i pastori protestanti e i fedeli – l’atteggiamento di probità verso il lavoro (Beruf), che, secondo la sua interpretazione, sarebbe originato da una condizione, o situazione psicologica, di ignoranza in cui il  credente verrebbe a trovarsi. In pratica, il credente, non avendo accesso alla volontà divina, è portato a voler sapere cosa Dio ha riservato per lui, e, questa “volontà di sapere” ha trascinato gruppi di credenti a credere, appunto, non cosa Dio avesse in serbo per il destino degli uomini, ma semmai che per scorgere i “segni” della volontà di Dio occorresse impegnarsi duramente e diligentemente nel proprio lavoro; e, guarda caso, molti dei primi imprenditori che hanno sviluppato la logica capitalistica della rendita del proprio lavoro erano di fede protestante, come osserva Weber stesso.

Quindi, come Weber stesso specifica nella sua Etica protestante,

la sete di lucro, l’aspirazione a guadagnare denaro più che sia possibile, non ha di per se stessa nulla in comune col capitalismo. Questa aspirazione si ritrova presso […] all sort and condition of men, in tutte le epoche di tutti i paesi della terra […]. La brama immoderata di guadagno non è affatto identica col capitalismo, tanto meno corrisponde allo “spirito” di questo.

Il capitalismo può anzi identificarsi con un disciplinamento o per lo meno con un razionale temperamento di un tale impulso irrazionale.

(cit. in Rutigliano, Teorie sociologiche classiche, Bollati Boringhieri, pp. 203-4)

Da queste considerazioni emerge che due fenomeni che paiono così lontani per essere accostati (e ciononostante, a Weber sono pervenute molteplici critiche), il raccordo tra la dimensione trascendente e quella pragmatica pare, invece, essere più stretta di quanto si possa pensare. Infatti, tutto ciò non è altro frutto che della situazione esistenziale dei fedeli protestanti che, non volendosi arrendere alla sorte che spetta loro – e, come ribadisce più volte Weber nel suo apparato teorico: l’essere umano è un essere che crea senso – danno vita a credenze, convinzioni, atteggiamenti, pratiche, ecc. in una parola: creano senso.

Qualche precisazione

Per procedere con prudenza è opportuno ricordare al lettore che Weber, posto di fronte a questo fenomeno, ha dovuto tenere in considerazione almeno due aspetti che risultano facilmente sintetizzabili nel metodo ceteris paribus, l’uno, e, collegato al precedente, il metodo della sottrazione della causazione adeguata, l’altro. Sebbene sembrano essere posti sullo stesso piano, per interpretare la nascita del capitalismo lo studioso ha dovuto ricorrere a un’analisi storico-comparativa (da qui, il metodo delle scienze storico-sociali che fa frequentemente uso del metodo storico-comparativo, perlomeno nelle ricerche qualitative e diacroniche) che tenesse conto della molteplicità di fattori che possono indurre un particolare contesto socioeconomico ha dare vita a questa struttura e modo di produzione, il capitalismo appunto. Ma procediamo con ordine.

Il primo metodo – ceteris paribus, a parità di tutte le condizioni – consiste nel porre sullo stesso piano le condizioni che avrebbero favorito i vari capitalismi; per esempio, Weber osserva che pure nella regione cinese vi erano poste le condizioni che, proprio secondo quanto Weber aveva tenuto in conto, avrebbero potuto far decollare il capitalismo, eppure questo è un fenomeno squisitamente europeo e occidentale, perlomeno ai suoi prodromi. La tecnica era sviluppata, la burocrazia efficiente, le condizioni di lavoro simili a quelle europee; eppure lì in Cina del capitalismo (a suo tempo) non si è data traccia. Cosa, allora, ha permesso, secondo lo studioso tedesco, la fioritura e la maturazione del modo produttivo capitalistico?

E qui, dobbiamo riallacciarci alla seconda espressione di cui abbiamo fatto uso – la sottrazione della causazione adeguata –: tra la molteplicità di fattori che possono spiegare il capitalismo, quali, tra questi, è quello determinante in buona e larga misura? Weber cerca la risposta nel comportamento religioso; infatti in Cina, ad esempio, la condotta morale descritta dai fedeli appartenenti alla chiesa del confucianesimo o del buddismo predicano un distacco dal mondo pressoché totale. È chiaro che, preso atto di queste considerazioni, Weber giunge alla conclusione che, indipendentemente dagli altri fattori, che pure hanno concorso alla nascita del capitalismo, l’istituzionalizzazione di questa struttura – il capitalismo – è dovuta al, e in buona parte determinata da, il comportamento religioso dei fedeli, specie quelli di chiesa protestante.

Simbolo della Chiesa protestante

Considerazioni critiche

In ultimo, ma non di minor importanza, dobbiamo occuparci delle possibili critiche pervenute e che possono, legittimamente, essere dirette al colossale studio weberiano.

In primo luogo, il campione: era adeguato? Possiamo asserire con un sufficiente grado di approssimazione che le lettere dei preti protestanti analizzate da Weber siano fondamentalmente un buon punto di partenza per giungere alle conclusioni alle quali è giunto? In pratica, ci chiediamo: le fonti attraverso le quali è stato condotto lo studio possono dirsi affidabili? O comunque, si può generalizzare da quelle stesse fonti, per ripercorrere le strade evolutive di un fenomeno così complesso? Ebbene, queste sono tutte domande che ci si chiede e, con tutta onestà, si tratta di questioni certamente di non facile risoluzione.

Ciò che invece possiamo dire a favore del “nostro” Max – giusto per spezzare una lancia a suo favore – è che ad egli va riconosciuto, forse, il merito incontestabile di aver condotto una ricerca con una trasparenza di metodo eccellente. È la trasparenza del metodo, infatti, che ha reso questa e altre ricerche condotte nell’arco della sua esistenza uno scienziato sociale di grande fama e rispetto; non si può dire che la sua sia stata un’impresa (questa volta non capitalistica) intellettuale di poco conto. Dal canto suo, Weber, sentenziò lui stesso che è il destino dello scienziato quello di essere superato sul piano intellettuale: «esser superati sul piano scientifico è – giova ripeterlo – non solo il nostro destino, di noi tutti, ma anche il nostro scopo». Ciò dimostra l’infinita e l’incommensurabile umiltà che lo studioso dichiarava a suoi successori, presto chiamati a un nuovo sforzo: quello di decifrare il pensiero del loro maestro, un punto di riferimento per qualsiasi studioso di scienze sociali.

Bibliografia:

Enzo Rutigliano, Teorie sociologiche classiche, Bollati Boringhieri, Torino 2001.

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