Quando pensiamo alla morte nutriamo nei confronti di questa un atteggiamento ambivalente: cerchiamo di non immaginare il momento in cui moriremo e al tempo stesso siamo attratti da tutte le situazioni che tendono a richiamarla, quali incidenti stradali, sparatorie, film horror, ecc. Questo dualismo deriva dal fatto che l’esperienza della morte pone l’individuo tra due fuochi: da un lato lo mette di fronte alla sua condizione di essere finito; dall’altro, proprio per sfuggire a tale finitezza, l’uomo elabora alcune “strategie” per cercare di allontanarsi il più possibile dal suo inesorabile destino. Fu il filosofo Ludwig Feuerbach ad affermare che:
“ogni religione nasce per conciliare il contrasto tra la nostra volontà infinita e le nostre possibilità limitate”
Al di là di ogni concezione filosofica e religiosa (in particolare, il Cristianesimo sostiene che la vita terrena è una vita di passaggio in attesa della vita del Regno dei cieli), l’uomo ha paura di morire non tanto e non solo per il dolore fisico che potrebbe derivarne, ma è piuttosto il pensiero di non esserci più, di lasciare i propri cari, le proprie cose e nel peggiore dei casi di essere dimenticato che lo spaventa; tuttavia le tendenze prometeiche della società moderna sembrano aver allontanato il modo di accettare e prepararsi alla morte dal loro senso originario. Emblematica risulta a tal proposito la visione dello scrittore Murakami Haruki:
“la morte non è l’opposto della vita ma una sua parte integrante”
La società amortale
Il concetto di morte si è evoluto nel corso del tempo tanto che si può parlare di vere e proprie fasi che hanno influenzato pratiche e riti, nonché il modo di rapportarsi e guardare alla morte stessa come esperienza individuale e collettiva. Le tendenze moderne avevano già spinto Edgar Morin a parlare di “società amortale” poiché se da un lato le scoperte scientifiche e le innovazioni hanno permesso e tendono sempre ad allungare la vita, migliorarne la qualità e curare malattie un tempo inguaribili, dall’altro la morte è diventata una sorta di tabù. L’uomo, cioè, pare aver sviluppato un culto della vita in virtù del quale, non dovendosi preoccupare o non pensando al suo cessare, si illude che tale finitezza non lo riguardi. Questa illusione è perseguita anche dal linguaggio e da espressioni comuni nelle quali è ricorrente l’utilizzo di metafore pur di non dirla, di non nominarla (la morte): dalla comunicazione giornalistica (nessuno muore mai di cancro, ma sempre “dopo lunga malattia“) ai tecnicismi del gergo medico-ospedaliero, fino alla ipocrita delicatezza del linguaggio quotidiano (nessuno è mai morto: al massimo, è “mancato“, quasi si fosse perso) e al linguaggio pudico della pubblicità delle agenzie di pompe funebri (per le quali la morte è diventata un “transito” o un “decesso“, i parenti “i dolenti”, la tomba “una sepoltura”, il funerale “le esequie”, la bara “il feretro”, il cadavere “la salma”, “le spoglie” o, peggio, “i resti”, ecc.).
Riprendersi la morte
È la società stessa che attraverso tali meccanismi di rimozione si crogiola dietro l’idea di immortalità quando invece il senso del corpo sociale è nella morte. Il patrimonio culturale si trasmette di generazione in generazione proprio perché le antiche generazioni presto o tardi moriranno e dunque per usare le parole di Morin,
“essa non ha senso che come riproduzione, e questo termine di riproduzione prende il suo senso pieno in funzione della morte”
Un altro espediente, per così dire, riguarda la creazione di istituzioni specializzate. Si muore infatti sempre meno in casa e si passa direttamente dall’ospedale al cimitero. Questa morte ospedalizzata diventa spesso una morte spersonalizzata perché in una società sempre più giovanilistica (il che è un paradosso visto che l’Italia è il secondo paese più vecchio al mondo, dopo la Cina) essa diventa un fatto privato, di cui ci si vergogna; un fatto estraneo che non riusciamo semplicemente a riconoscere come evento naturale, tanto che una delle domande ricorrenti è “come è morta?”. Rifiutando l’idea per la quale una persona cessa di vivere semplicemente perché è giunta la sua ora. Occorre quindi riprendersi la morte, parlarne, riportarla nelle nostre case, tra le persone care. In altre parole, ridarle dignità e soprattutto vita.
La morte come fatto sociale
La morte è un fatto sociale che riflette molto spesso le caratteristiche strutturali di una società. Parlando ad esempio di disuguaglianze, essa è portatrice della cosiddetta mortalità differenziale relativa alle aspettative di vita in riferimento al ceto di appartenenza. Quest’ultima separa i poveri dai ricchi all’interno di un Paese, ma può avere anche ripercussioni a livello mondiale e si estende a etnie, sessi, classi sociali, ecc. La mortalità differenziale non riguarda solo le categorie professionali del passato (pensando ad esempio a nobili e operai). Studi recenti hanno infatti dimostrato la correlazione tra titolo di studio e mortalità evidenziando come sia tre volte più alta tra gli analfabeti che tra i laureati. Accanto all’orientamento tipico soprattutto dell’Occidente improntato a voler nascondere la morte come se ciò bastasse ad estraniarla dalla vita, vi è uno opposto che finalmente la affronta estremizzando i suoi tratti, tanto che si può parlare di “morte mediatizzata”. Prima di addentrarci nella sua descrizione occorre fare un breve excursus che ci aiuti a comprendere come si sia arrivati a questa fase.
La morte nella storia
Schematizzando la periodizzazione proposta da Aries nel suo lavoro “Storia della morte in Occidente” possiamo individuare quattro fasi.
1. La prima, nell’alto Medioevo, della morte addomesticata, durante la quale l’atteggiamento prevalente è quello della rassegnazione. La morte viene accettata come naturale e vi è una coesistenza tra vivi e morti. I riti sono improntati alla semplicità e sono cerimonie pubbliche nelle quali vi è una carica emozionale che non è permeata dalla drammaticità.
2. Successivamente, con la diffusione del Cristianesimo, si ha l’apporto di nuovi elementi nei riti e nel significato della morte la cui visione rimane improntata alla familiarità, ma alla quale si affianca la paura del giudizio non più collettivo ma individuale: per morire bene, bisogna comportarsi moralmente. Nascono in questo periodo le Artes Moriendi, i manuali del morire bene. L’arte rappresenta trionfi della morte, danze macabre che nella loro morbosa descrizione dei cadaveri rivelano l’amore per la vita nonché il terrore di perderla. La morte diventa il luogo in cui l’uomo prende coscienza di se stesso: è la fase della morte del sé.
3. Nella terza fase, a partire dal XVII secolo, si esce dalla preoccupazione per quello che sarà il proprio destino e si comincia a pensare a quello altrui. La morte dell’altro è la morte delle persone amate, dei propri familiari. Si diffonde in questo periodo il culto delle tombe che protende però verso una laicizzazione dei riti nei quali il dialogo coi defunti diventa parte del quotidiano.
4. La quarta e ultima fase descritta da Aries è quella attuale della morte proibita che inizia a partire dal secondo dopoguerra. La morte scompare dal panorama sociale e i riti sono svuotati del loro pathos e della loro carica drammatica. Essa non è né più vista, né pensata. A tal proposito Ariès parla di questa “messa a morte della morte” come di una “rivoluzione brutale”, un “fenomeno inaudito”. A partire da questo periodo comincia a diffondersi l’idea per la quale la morte è una legge della natura contro la quale rivoltarsi (se ne era già accorto per tempo Leopardi). A quest’epoca si può fare risalire quella necessità di sconfiggere la morte che avevamo annunciato prima. Non si tratta più solo di accettarla passivamente ed è forse con queste premesse che alla figura del sacerdote al capezzale del morente si affianca (fino a sostituirla del tutto) quella del medico, i cimiteri sono posti al di fuori delle mura cittadine, diminuisce l’importanza e l’enfasi sugli aspetti religiosi. Dal punto di vista sociale si assiste alla creazione di figure specializzate che organizzano i funerali e la progressiva laicizzazione di idee e credenze fa sì che il fine ultimo della vita sia quello di essere ricordati per le proprie azioni, imprese. Le commemorazioni hanno una funzione rassicurante: ci danno la certezza o quanto meno la speranza che noi moriremo ma che gli altri ci ricorderanno.
Vivere senza invecchiare
Altri sintomi della progressiva perdita da parte del Cristianesimo del monopolio sulla morte sono ad esempio la cremazione dei corpi o il matrimonio civile, non celebrato in Chiesa. Sono questi sostanzialmente gli elementi che vedono l’affermarsi nelle società contemporanee di una corrente che guarda alla morte con un senso differente. La scientizzazione della vita ci fa approdare in una quinta fase che ne parla con due diverse declinazioni, anch’esse opposte: da un lato la si affronta per rinviarla il più possibile, dall’altro vi è una progressiva presa di coscienza della sua inevitabilità; in questa prospettiva non solo la si accetta, ma la si ricerca anche quando la medicina potrebbe prolungare la vita mediante la tecnologia. Le spinte tecnologiche ci portano infatti verso quella che Remo Bodei definisce “società dell’antidestino” che si basa sulla spasmodica ricerca di mezzi per vivere senza invecchiare, riducendo fino quasi ad annullare del tutto i segni del tempo in base ai modelli veicolati dalla pubblicità e dai media, gli stessi che utilizzano metafore belliche, sponsorizzano prodotti anti-età, smembrando la ricerca del suo senso originario (ricorrenti sono espressioni quali “combattere l’invecchiamento”, “dichiarare guerra al dolore” o “vincere la morte”). La reazione a tali spinte è una nuova umanizzazione della morte, una sua reintroduzione nella vita individuale e collettiva. Una prima ragione di questa controtendenza è individuabile nella sfiducia nei confronti della biomedicina occidentale che con la sua presunzione, l’uso smisurato della tecnologia e la sua pretesa di ergersi a egemonia culturale, fanno emergere il desiderio di rivolgersi a contesti che utilizzano pratiche differenti (un chiaro esempio è il successo della medicina tradizionale cinese, ma non solo). Un’altra ragione è rintracciabile in questioni bioetiche che hanno animato il dibattito pubblico attraverso casi e storie individuali che avendo una risonanza mediatica e politica sono riusciti ad oltrepassare la sfera religiosa (emblematici sono stati in Italia i casi di Eluana Englaro e Piergiorgio Welby). Guardando da un’altra prospettiva ai mass-media possiamo accorgerci di un ulteriore paradosso. Essi hanno infatti desacralizzato la morte, sostituendo la spettacolarizzazione al rito, pertanto i meccanismi di nascondimento più volte citati avvengono in una società che ne risulta circondata, che prolifera di trasmissioni televisive e contenuti video con incidenti automobilistici e motociclistici o di stragi terroristiche. La morte arriva nelle nostre case confezionata sotto forma di notizia flash, fa soldi e diventa una forma di intrattenimento al pari del gossip.
Conclusioni
Il fatto sociale rilevante è la netta sparizione nella vita delle persone della morte vera e la diffusione massiccia di quella rappresentata. Tirando le somme della nostra riflessione, i progressi tecnologici hanno allungato le aspettative di vita sconfiggendo malattie endemiche, ma hanno lasciato spazio ad una progressiva marginalizzazione del malato rispetto alla comunità in cui vive. Pertanto la morte, rispetto ad altri momenti topici quali nascita e matrimonio, trova spazio nei luoghi sacri forse perché la religione è uno dei pochi ambiti nei quali si trovano le parole per parlarne e nel quale non viene negata. Tenendo presente che l’essere umano è l’unico animale che seppellisce i morti e che ha consapevolezza del fatto che la morte lo superi, i meccanismi di nascondimento, accettazione e i tentativi di rifuggirla mediante la tecnologia, non sono altro che strategie che gli consentono di sopravvivere all’idea che un giorno non ci sarà più.
Carmen Pupo
