Quante volte durante la giornata ci si sofferma a pensare alla morte? Il concetto di morte, viene solitamente tenuto a debita distanza dallo svolgimento della nostra vita, ma ritorna costantemente nel cuore della quotidianità con l’utilizzo dei social network, delle chat e del web.

Come si diventa spettri digitali?

La costante presenza sul computer e sui dispositivi mobili dell’account Facebook di una persona deceduta, in mezzo ai profili dei vivi, è un’esperienza non commensurabile alla visita programmata alla sua tomba nel cimitero cittadino o alla visione della fotografia conservata in un album nel cassetto del mobile in salotto. Se le tracce della sua esistenza si sedimentano nei ricordi dei familiari, degli amici e dei conoscenti, le sue impronte digitali vagano, invece, eternamente e senza meta, ripiombando in maniera inaspettata dinanzi agli occhi di chiunque abbia avuto a che fare con lei. Basta una parola chiave digitata su un motore di ricerca o la visione di una fotografia in cui la persona deceduta è stata taggata per rimettere in moto una fine che virtualmente fine non ha. 

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Come afferma il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, si diventa spettri digitali a disposizione permanente dei posteri e quindi capaci accidentalmente di vivere per sempre, senza il proprio consenso, ingombranti testimoni del passaggio della morte e della contemporanea impossibilità di scomparire e di dimenticare.

Dunque, qualsiasi strategia adottata per allontanare il pensiero quotidiano della mortalità viene vanificata dalla cultura digitale. La morte è presente ovunque nell’ambiente digitale: nei social network, tra i selfie su Instagram, dove trova un suo specifico spazio tramite hashtag divenuti popolari, nei video amatoriali in diretta, nelle immagini sui quotidiani in rete, in molteplici siti Internet e blog.

La morte in “If I Die”

Un esempio ci viene offerto da Eran Alfonta, amministratore delegato di Willook e ideatore di If I Die, un’applicazione che offre la possibilità di preparare videomessaggi e testi scritti di commiato, i quali verranno pubblicati su Facebook, una volta deceduti. Alfonta sostiene che “siamo su Facebook prima di nascere, nelle immagini delle ecografie prenatali condivise dai nostri genitori, poi nasciamo su Facebook, cresciamo su Facebook, ci sposiamo e divorziamo su Facebook. Il tutto testimoniato quotidianamente con messaggi, fotografie e video. Non c’è niente di strano nel morire anche su Facebook.

Anzi, stupisce che i gestori del social network, almeno fino a oggi, abbiano sottovalutato questo aspetto inevitabile della nostra esistenza. Che piaccia o no rifletterci sopra, i loro utenti, oltre a flirtare, litigare e condividere fake news, non sono ancora in grado di evitare a sé stessi la seccatura della malattia e della morte” (Davide Sisto, La morte si fa social, pag. 13). Le persone muoiono, i loro profili Facebook no.

Secondo Mashable, If I Die conferisce immortalità ai social network, poiché permette ai profili di continuare ad aggiornarsi anche dopo la scomparsa del legittimo proprietario. Uno degli strumenti dell’applicazione permette anche di stabilire una data specifica di pubblicazione, utilizzabile in caso di suicidio, oppure nel caso in cui l’utente contrasse una malattia incurabile. Willook dichiara:

«Tutti abbiamo delle cose da dire, e non sempre c’è un pubblico disposto ad ascoltarci finché siamo in vita. La cosa importante è riuscire a lasciare dietro di noi un messaggio, un’impronta, un segno del nostro passaggio».

Onlife: le due abitazioni della morte

Per Luciano Floridi è sbagliato credere che l’abitazione virtuale sia una via di mezzo tra l’attitudine degli agenti umani ad adattarsi agli ambienti digitali e una forma di neo-colonizzazione post-moderna degli ambienti digitali da parte degli agenti umani, da cui seguono probabili vantaggi anche per l’abitazione tradizionale. Le due abitazioni, online e offline, non sono infatti semplicemente sovrapposte. Il loro confine, con l’incessante evoluzione del web, è sempre più sfocato, per cui il mondo digitale trabocca nel mondo analogico offline, con il quale si sta mescolando.

Questo fenomeno viene definito da Floridi come “esperienza onlife”, per mostrare quanto non abbia senso tenere distinte le abitazioni e pensare che online e offline costituiscano, semplicemente, due mondi paralleli. La consapevolezza di essere onlife, quindi di vivere in contemporanea in due abitazioni comporta un ripensamento radicale del nostro legame privato e pubblico con la morte e il lutto, con la memoria e l’oblio, con il rito funebre e il cordoglio, con la visione stessa del cadavere.

Diventare inforg

Nell’esperienza onlife si diventa degli inforg, organismi informazionali reciprocamente connessi e parte di un ambiente informazionale, l’infosfera condivide con altri agenti informazionali, naturali e artificiali e che processano informazioni in modo logico e autonomo. La quarta rivoluzione, che prevede la delega continua dei nostri ricordi e delle nostre memorie ad agenti artificiali, offre nuove soluzioni e opportunità al nostro complicato rapporto con il fine vita e con il tempo che passa.

L’integrazione armonica tra l’abitazione virtuale e l’abitazione fisica, tra la dimensione online e quella offline, tra l’informazione pubblica e l’azione privata, la bacheca su Facebook del deceduto, se rimane online in assenza di previe indicazioni date dal proprietario, assomiglia in tutto e per tutto alla sua abitazione fisica. La differenza è che nell’abitazione fisica occorre andarci in un momento specifico della giornata, mentre, nel diario di Facebook ci si può finire in qualsiasi istante.

Black Mirror: Be Right Back

Simbolo distopico di un futuro prossimo, l’episodio Be right back, della seconda stagione di Black Mirror, serie tv britannica disponibile su Netflix, è una delle migliori espressioni di fantascienza cinematografica nell’immaginare le future evoluzioni delle tecnologie odierne.

L’episodio narra la vicenda di una giovane coppia inglese, Martha e Ash. La loro vita matrimoniale: la spesa al supermercato, le canzoni dei Bee Gees cantate in automobile, lo smartphone sempre in mano, viene stravolta con la morte di Ash a causa di un incidente stradale. Martha, a pezzi per la perdita e incinta, si lascia convincere dalla sua migliore amica a installare sul computer un software dotato di una caratteristica particolare, ovvero il suo uso permette di “continuare” a comunicare con il compagno deceduto.

Il programma ricrea il profilo del caro estinto con la sua specifica personalità e con il suo stile comunicativo, rielaborando le parole e le immagini da lui condivise sui social network, nelle chat e nelle e-mail private. L’obiettivo è quello di lenire le sofferenze causate dal lutto. Nel corso dell’episodio un richiamo alla realtà lo si può riscontrare nell’espressione che utilizza il software quando dice: “sono un sistema remoto, vivo tra le nuvole”.

Il passaggio successivo è ancora più estremo. Il defunto può “tornare” dalla sua compagna con un corpo artificiale anonimo che va attivato, seguendo delle precise istruzioni. Così, per casa inizia a muoversi un Ash artificiale, ma il corpo artificiale non sostituisce del tutto la persona reale, finendo depositato in soffitta, pronto a essere riattivato ogni volta che il peso del lutto torna a farsi insopportabile.

Facebook e spettri digitali

Si stima che trentatremila utenti di Facebook concludono quotidianamente la propria vita, portando il pensiero e l’immagine della morte tanto nello spazio fisico quanto nello spazio mentale di una quantità imprecisa di persone. Secondo Hachem Sadikki, dottore di ricerca in Statistica presso l’Università del Massachussetts, nel 2098 il numero di utenti deceduti sarà addirittura superiore a quelli ancora in vita.

Ciò è dovuto alla scelta del social network di non eliminare in modo automatico gli account degli utenti deceduti e il rallentamento endemico delle nuove iscrizioni. Se le previsioni sono corrette e se Facebook a fine secolo sarà ancora attivo, tra qualche decennio, una distesa di profili fantasma saranno a disposizione di chi è rimasto ancora in vita e si ritrova circondato da tutti questi spettri.

morte social network

Secondo Peters la cultura digitale rende facile la mescolanza dei vivi con tracce comunicabili del morto e, al tempo stesso, difficile la distinzione tra la comunicazione a distanza e quella con il morto. Il carattere social del network può mettere nella condizione di focalizzare l’attenzione sul valore simbolico del limite che unisce e separa la vita dalla morte e che, in una società impreparata a fare i conti con la mortalità dei suoi cittadini, è troppo spesso tenuto a distanza dalla vita di tutti i giorni. Di conseguenza, può offrirci mezzi basilari per condividere collettivamente l’esperienza della morte e del lutto, ricreando al suo interno una forma genuina di comunità.

Facebook e la morte digitale

Facebook complica ulteriormente la già non semplice relazione che si ha con la morte e con i morti. L’esposizione quotidiana della propria intimità e la confusione costante tra pubblico e privato si traducono spesso in un’assenza di distanza e in una contemporanea forma di recitazione, le quali riducono ogni utente di Facebook a una mera immagine di sé. Le conseguenze sono la perdita del controllo razionale delle proprie condivisioni e la difficoltà a distinguere se stessi dalla copia virtuale, rimanendo in balia di quello spazio onirico dell’era digitale.

Si corre il rischio di perdere il contatto con l’autentica interruzione temporale e di banalizzare il senso stesso della morte reale, rendendola simile a quella rappresentata nei film, nei videogiochi e in televisione e aumentando gli effetti negativi della rimozione. Ciò è avvalorato dal fatto che i social network come Facebook non sono stati progettati tenendo conto che i loro fruitori prima o poi muoiono, non vi è una valutazione preventiva delle conseguenze della morte del singolo utente all’interno della piattaforma digitale. Solo negli ultimi anni i loro gestori hanno cominciato a porsi il problema e a cercare soluzioni mirate.

Nonostante ciò, basta una funzione del social, come “Accadde oggi”, la quale propone quotidianamente al singolo utente di ricondividere uno specifico ricordo pubblicato qualche anno addietro per generare difficoltà psicologiche ed emotive riguardanti il fine vita. Infatti, può capitare che il ricordo riproposto contenga l’immagine o un chiaro riferimento a una persona amata che è morta, determinando conseguenze deleterie in chi è più fragile e meno capace a elaborare la perdita.

Sirena Frattasio

Riferimenti bibliografici e sitografici

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