La nostra quotidianità è dominata dalle immagini: da quando ci svegliamo a quando andiamo a dormire, osserviamo il mondo attraverso una lente, quella dei telefoni, della rete, che ci impongono di testimoniare la nostra presenza in luoghi, eventi e accadimenti, filmando e documentando, spasmodicamente, tutto.

Cultura visuale

Ma questa necessità non è una prerogativa della modernità poiché l’apparente distanza che separa le immagini moderne e i graffiti del Paleolitico, nasconde in realtà una prassi comune: l’articolazione del rapporto “figura-sfondo”, una tecnica che riesce ad essere arcaica e modernissima, fondata sul bisogno di lasciare tracce. Le immagini, però, così come il nostro modo di guardare il mondo e di rapportarci ad esse, lungi dall’essere fenomeni astratti e sovrastorici, sono sempre qualcosa di culturalmente situato. A partire dagli anni Venti sono diversi studiosi a parlare di “cultura ottica”, “cultura visuale” e “cultura della visione” per riferirsi alle trasformazioni epocali prodotte dalla fotografia e dal cinema, considerati come media ottici capaci di ridefinire le coordinate del visibile, nonché il rapporto tra visione e lettura, tra esperienza visiva e sapere concettuale.

Una nuova vicinanza

Nell’opera “L’uomo visibile”, Bela Balazs celebra l’avvento di una nuova cultura fondata sul primato dell’immagine sulla parola, del gesto sul concetto e su una riscoperta della dimensione concreta e sensibile del reale: un avvento che è in realtà una regressione alla condizione che precedeva il primato della parola e e del pensiero, promossa dall’invenzione della stampa. Il cinema, che nel 1924 era muto, promuove secondo lo scrittore ungherese una nuova cultura che, riprendendo la distinzione tra arti del tempo (nelle quali gli elementi si dispongono uno dopo l’altro come la poesia e la musica) e arti dello spazio (in cui gli elementi si dispongono gli uni accanto agli altri come la pittura e la scultura), afferma che mentre i segni verbali rinviano ad una realtà collocata al di là, le immagini cinematografiche registrano e restituiscono sullo schermo l’immediata visibilità delle cose. Lo spettatore cinematografico si trova in una nuova condizione di vicinanza che comporta il venir meno della distanza che caratterizzava la relazione con l’opera d’arte che restituiva all’osservatore un mondo distante, impenetrabile e chiuso. L’uomo della cultura visuale rappresentato sullo schermo si esprime attraverso un linguaggio completo e universale, quello della mimica e dei gesti, capace di oltrepassare barriere sociali e nazionale.

Rivoluzione visiva

Nella seconda metà degli anni ‘40, Epstein presenta il cinema come un dispositivo filosofico capace di pensare il tempo, grazie alla sua capacità di renderlo malleabile. Egli era convinto che il cinema fosse uno strumento capace di modificare il campo della creazione artistica ma anche quei modi di pensare più semplici e comuni che determinano il clima mentale di un’epoca. La storia della tecnica dimostra infatti che l’invenzione di uno strumento riorganizza lo spirito che l’ha concepita. Così come gli occhiali e il telescopio avevano rivelato aspetti fino ad allora sconosciuti, anche il cinema in quanto apparecchio finalizzato alla registrazione e alla rappresentazione del movimento, ha rivoluzionato il nostro modo di vedere il mondo, aiutandoci a penetrarlo spingendoci a considerarlo come una realtà fluida, dinamica, mobile, caratterizzata da una variabilità di tutte le relazioni nello spazio e nel tempo, dalla relatività di tutte le misure e dall’instabilità di tutti i punti di riferimento che si oppone ad una visione basata su valori fissi e forme espressive rigide, incapaci di cogliere quel mondo animato e animistico, quella mobilità perpetua che il cinema rende molto efficacemente.

Campi di ricerca

Visual culture studies e Bildwissenschaft (“scienza” o “teoria dell’immagine”) sono i nomi che hanno assunto i due vasti campi di ricerca transdisciplinari che si sono affermati nel contesto accademico angloamericano e in quello dei paesi di lingua tedesca, dotandosi di tutta una serie di strutture istituzionali e di strumenti scientifici. Tra questi due campi di ricerca vi sono importanti analogie e altrettanto importanti differenze. Tra le analogie vi è senz’altro il fatto che sia i visual culture studies sia la Bildwissenschaft sono campi di studio nati come reazione a una serie di importanti trasformazioni che si sono verificate a partire dall’inizio degli anni ’90 nell’ambito di quella che potremmo chiamare iconosfera: la sfera costituita dall’insieme delle immagini che circolano in un determinato contesto culturale, dalle tecnologie con cui esse vengono prodotte, elaborate, trasmesse e archiviate e dagli usi sociali di cui queste stesse immagini sono oggetto.

Più immagini

In primo luogo, bisogna sottolineare come, con l’avvento di Internet, la progressiva diffusione delle tecnologie digitali e il sempre più facile accesso a software e dispositivi per la produzione, riproduzione, manipolazione, archiviazione, trasmissione e condivisione di immagini, il semplice numero delle immagini in circolazione è aumentato vertiginosamente, producendo un flusso iconico incessante. In secondo luogo, l’inizio degli anni ’90 ha visto la comparsa e l’ampia diffusione di immagini prima sconosciute e di forte impatto politico, sociale ed epistemico, capaci di inscriversi profondamente nell’immaginario collettivo. Pensiamo alle immagini trasmesse dalle videocamere dotate di mirino installate sulla punta dei missili lanciati contro il loro obiettivo durante la Prima Guerra del Golfo e alla loro disturbante somiglianza con le immagini del videogioco. Alla diffusione capillare di videocamere di sorveglianza negli spazi pubblici e privati con tutte le implicazioni sul controllo sociale, allo sviluppo di nuove forme di visualizzazione nell’ambito della disciplina scientifica e medica (nanotecnologie, ecografie in 3D, brain imagine) che hanno rivoluzionato la nostra conoscenza in materia, il nostro immaginario che è stato rapidamente ripreso dal cinema e dalle serie.

Nuovi interessi

Pensiamo, infine, al modo in cui media sempre più globali hanno reso visibili in diretta eventi storici dotati di un forte impatto politico, sociale ed emotivo come la caduta del Muro di Berlino o l’11 settembre 2001. Questa crescente diffusione di immagini ha determinato a partire dall’inizio degli anni ’90 un forte interesse per il ruolo del visivo e della visione  all’interno di discipline che non consideravano il visivo come oggetto di studio: documentari, attenzione crescente dell’antropologia per la documentazione visiva delle culture, geografia, medicina, neuroscienze ma anche scienze sociali che analizzavano il nesso tra le forme di rappresentazione visiva del potere e la visibilità della disciplina, della sorveglianza, del controllo. A seguito di questa incessante diffusione di immagini, occorre nominare gli studi giuridici effettuati sull’evoluzione del concetto di copyright a fronte di un panorama iconico in cui i processi di appropriazione, manipolazione e diffusione delle immagini sono sempre più rapidi ed incontrollabili.

La donna come immagine

I feminist studies, dal canto loro, hanno posto l’accento sin dagli anni ’70 sulla natura sempre affettivamente e sessualmente orientata dello sguardo rivolto alle immagini, e sul modo in cui determinate ideologie (in particolare l’ideologia patriarcale) riescono a codificare le proprie gerarchie, i propri orientamenti e le proprie fantasie erotiche nelle forme popolari di rappresentazione visiva, dando a queste stesse forme una parvenza di naturalità e immutabilità. Nel suo celebre saggio intitolato “Piacere visivo e cinema narrativo”, Laura Mulvey ha mostrato, con un intento esplicitamente critico, come il fascino del cinema classico hollywoodiano si sia fondato storicamente sulla distinzione netta tra due posizioni asimmetriche: la posizione attiva di chi guarda lo spettacolo – un pubblico concepito come prevalentemente maschile e come animato dalla ricerca di un piacere voyeuristico, il piacere di “guardare senza essere visti” proprio del “male gaze”, lo sguardo maschile – e la posizione passiva di chi è parte dello spettacolo ed è guardato – quella di attrici donne che sono messe in scena esplicitamente come oggetti di un desiderio erotico maschile. La donna come immagine, l’uomo come portatore dello sguardo.

Uno sguardo verso l’altro

I postcolonial studies, infine, hanno contribuito a mostrare la natura sempre culturalmente, socialmente e politicamente determinata dalle rappresentazioni che il mondo occidentale si è fatto delle culture per così dire altre, che molto spesso erano le culture dei Paesi colonizzati dalle stesse nazioni europee. L’Oriente, più che un’area geografica, è un costrutto culturale prodotto da tutta una serie di regimi discorsivi, di tradizioni iconografiche, di fattori al tempo stesso epistemologici e ideologici, politici e sociali che riassumono gli stereotipi che hanno caratterizzato l’Oriente all’inizio del XX secolo: esotismo, primitivismo, sensualità. La scienza delle immagini tedesca si fonda su uno stretto legame con la storia dell’arte, considerata un modello a cui ispirarsi. Ha focalizzato l’attenzione sulle tecniche e i materiali che stanno alla base delle diverse forme di visualizzazione e di produzione iconica, e che consentono alle immagini di esercitare funzioni culturali essenziali come documentazione, registrazione, archiviazione e comunicazione.

Carmen Pupo

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