Uno dei temi che Zygmunt Bauman ha trattato con maggior fervore è sicuramente la responsabilità morale. Un tema che lo riguarda molto da vicino. Avendo vissuto sulla propria pelle la follia nazista, lo studioso ha maturato una certa affezione nei confronti dell’etica e della morale, un’affezione che lo ha portato a studiare i fenomeni sociali con certo rigore e con un occhio clinico.

All’origine della responsabilità morale: il concetto di libertà

Essere libero e, allo stesso tempo, non esserlo è forse la più comune delle nostre esperienze. Io sono libero, dunque ho la capacità e la possibilità di decidere e scegliere. Tuttavia, c’è un limite. Se infrango le regole della società devo essere punito. Questa è la base del concetto di libertà autolimitante. Che cosa significa?

Il principio cardine di tutte le democrazie che ha le sue radici in Kant può essere sintetizzato con la frase “la mia libertà finisce dove inizia quella altrui”. In altre parole, non posso fare tutto quello che voglio, ma, essendo parte integrante di un sistema costituito da una pluralità di soggetti agenti (e pensanti) che creano regole e condividono uno spazio comune, devo rispettare quelle regole e quegli spazi. Quest’idea di libertà è strettamente legata al concetto di dipendenza. Non esiste, de facto, la libertà assoluta: dipendiamo sempre da qualcosa o qualcuno, che ci piaccia o meno, che sia un rapporto consapevole o meno, lontano o di prossimità e questo la sociologia lo spiega bene. Un esempio?

proteste donne iran corpo libertà
Le proteste delle donne iraniana a seguito dell’uccisione della ventiduenne curda Mahsa Amini, accusata, lo scorso 16 settembre, dalla polizia morale di Teheran di non indossare correttamente il velo.

Non siamo noi a scegliere come essere socializzati

Noi non scegliamo di nascere in un determinato paese. Non scegliamo la lingua con cui interloquire e iniziare la socializzazione primaria. Ce lo impongono. Non scegliamo, quindi, in che gruppo nascere, tuttavia sarà proprio quel gruppo a formarci e a contribuire alla costruzione del nostro sé (sia interno che sociale). Ce lo ricorda George Herbert Mead, lo psicologo americano quando parla del processo di interiorizzazione e del rapporto tra io e me.

Già dai primi momenti in cui, da bambini, familiarizziamo con il mondo e tentiamo di acquisire la giusta esperienza per discriminare e scegliere, ci rendiamo conto di una cosa: il nostro gruppo è sì una parte fondamentale del nostro sviluppo, ma è anche il più grande ostacolo per lo sviluppo avanzato del proprio sé. Pensiamoci: in un paese in cui vi è un controllo politico di natura teocratico del corpo femminile affermarsi come donna seguendo modelli divergenti dal sistema proposto non è facile. Coloro che vogliono aumentare la propria autonomia dello sviluppo del sé vengono etichettati come devianti o addirittura criminali e ciò porta a forti e violente repressioni.

Distanza sociale e simpatia

Secondo Alfred Shutz la razza umana si trova su un continuum, una linea immaginaria misurata in base alla distanza sociale che aumenta man mano che il rapporto sociale si riduce di volume e intensità. Partendo da me stesso come punto di partenza di questa linea possiamo dire che coloro che sono più vicini sono i consociati (con cui ho rapporti diretti), coloro che condividono il mio tempo storico saranno i miei contemporanei (con cui posso potenzialmente instaurare rapporti), coloro che mi hanno preceduto saranno i predecessori e coloro che mi seguiranno saranno i successori.

Le prossimità fisiche e mentali che possiamo sperimentare con le relazioni non sempre si sovrappongono, tuttavia esse contribuiscono a generare in noi la capacità (e propensione) a provare simpatia, di percepire altresì gli altri come simili a noi, con i loro diritti, pensieri ed emozioni. Tuttavia, ciò porta a una domanda spontanea: per tutelare quanto più è possibile il nostro sé, la nostra individualità dovremmo forse creare un qualcosa per distinguerci? dovremmo dunque percepire la similitudine e non l’uguaglianza?

Noi, gli altri e gli estranei

Andiamo per ordine. Non è un processo facile da definire, soprattutto se bisogna valorizzare l’empatia e la vita di comunità. Poiché la contrapposizione tra in-group e out-group è il principale strumento per disegnare e classificare il mio mondo, percepirsi come “tutti uguali” può non essere visto come un qualcosa di positivo. Tuttavia, l’antagonismo fa parte del mondo sociale e dei processi di identificazione e quindi è necessario stabilire delle differenze. L’out-group, dunque, sarà sempre quell’opposizione – di ideali, di conformazione gruppale, di comportamenti etc. – al nostro gruppo che, necessariamente sarà bello, rassicurante, compatto e pronto alla cooperazione contro l’avversario.

Noi non prenderemmo quasi mai alla leggera opinioni contrarie a coloro che identifichiamo come membri del nostro gruppo poiché attribuiamo a quest’ultimo delle regole immaginarie: aiuto reciproco, protezione e amicizia. Un esempio? la famiglia, il gruppo dei pari (gli amici), la squadra di calcio.

Questo processo di definizione tra me e gli altri, tuttavia, non si conclude con un rapporto duale: come ci ricorda Norbert Elias, esiste l’outsider, l’estraneo, colui il quale non condivide praticamente nulla con me, se non il fatto di essere umano. Tuttavia (anche nei confronti degli esseri non-umani!) riusciamo a compattarci nella definizione di pregiudizi per discreditare l’estraneo.

Pensiamoci: il pregiudizio, di fatto, ci impedisce di accettare la possibilità che le intenzioni dell’out-group possano essere oneste, che l’altro possa avere qualche virtù, che i nemici possano dire la verità e che le loro offerte di pace possano essere sincere e prive di secondi fini (Bauman, p. 44, 2003). L’estraneo è quasi sempre un invasore. Perché? Semplice: non è familiare. Ciò può portare a una serie di atteggiamenti nei suoi riguardi. Il primo è, nei casi di devianza, la colpevolizzazione apriori, il secondo riguarda la disattenzione civile.

Dalla disattenzione civile alla responsabilità morale

Il sociologo americano Erving Goffman scoprì che la disattenzione civile è la tecnica sovrana per rendere la vita fra estranei possibile. Essa consiste nel simulare di non guardare e di non ascoltare ciò che accade nei luoghi del vissuto (città o altri che siano). Detto semplicemente, è la pratica di non curarsi degli altri che si concretizza, banalmente, nell’evitare il contatto visivo, ossia lo sguardo. Guardarsi comporta sempre a un contatto più personale, alla “propria rinuncia a rimanere anonimo” (Ivi p.64).

Questa richiesta di privacy data dalla mancanza dello sguardo riguarda la sfera del privato che, seppur è un’esigenza, spesso si traduce in solitudine. Questa invisibilità morale tutela, da una parte, il nostro vissuto nella città, ma dall’altra contribuisce a generare distanza e solitudine. Come ci ricorda George Simmel, una metropoli siffatta (ma anche qualsivoglia luogo virtuale o fisico), in cui vengono privilegiati legami funzionali come quelli in denaro, contribuiscono a creare persone “schizofreniche e frammentate”, incapaci di generare e condividere empatia. Un esempio? pensiamo a come guardiamo e consideriamo i clochard, ma anche le “minoranze”, gli immigrati.

La responsabilità morale

Arriviamo dunque alla responsabilità morale. Essa si distingue dal disinteresse e non deriva dalla paura di essere puniti o dal calcolo di un vantaggio personale. Per Bauman la responsabilità si definisce morale fin tanto che:

  • è altruistica e incondizionata. Detto in termini semplici io sono responsabile di un altro semplicemente perché è una persona;
  • la vedo mia, in quanto non negoziabile poiché è un’esigenza intrinseca, un impulso morale a dare aiuto e soccorso a chi ne ha bisogno, e che non ha bisogno di legittimazione alcuna;

L’affinità morale è costituita specificamente da questa tipologia di responsabilità. Tuttavia, in condizioni di estraneità universale l’affinità fisica viene depurata dal suo aspetto morale e ciò porta a un equilibro di convivenza: non si vedono gli estranei come nemici ma si inseriscono in un sistema ordinato di percezione dove sono a un passo dal divenire invisibili.

Ultimo stadio da evitare: l’indifferenza

L’indifferenza morale è l’ultimo stadio di un processo in cui noi ci percepiamo diversi da loro ma di loro non ci interessa un granché… a meno che questi estranei non rivendichino – giustamente – i propri diritti di esistenza. Grave è la situazione dei paesi in cui c’è insensibilità per i bisogni degli altri e ancor più grave per Bauman è la mancanza, da parte delle persone, della responsabilità collettiva. Un esempio?

Possiamo commuoverci per i migranti che muoiono durante la traversata, ma abbiamo la responsabilità morale di tendergli una mano per non affogare? oppure, banalmente, ho coscienza della responsabilità morale se danneggio un bene pubblico o di pubblica utilità come un bus o un treno, o mi indigno soltanto? quanta responsabilità morale possiedo se faccio fare i bisognini al mio cane sotto un balcone a piano matto dove abitano le persone?

Bibliografia

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