Se la sociologia come scienza empirica e speculativa, con forti presupposti teorici nasce in Europa, gli Stati Uniti hanno avuto il merito di trasformare la disciplina in metodi di intervento sociale, come sociologia applicata. La sociologia clinica nasce nella prima metà dello scorso secolo con la Scuola di Chicago – trai cui esponenti di spicco figurano sociologi del calibro di William Thomas – e con le sue analisi delle problematiche legate alla devianza e all’anomia in un contesto urbano fortemente multietnico e dinamico. Il primo corso venne tenuto da Ernest Burgess, tra i maggiori sociologi urbani.
L’analisi dei fenomeni problematici e con alta potenzialità di conflitto e criminogena conduce ben presto a valutare ipotesi di intervento per prevenire e armonizzare popolazione, etnie e contesti, sia con operazioni di micro che di macrosociologia. È anche il periodo d’oro dell’emergere di nuove teorie sulla devianza e della sociologia urbana, la città diviene infatti luogo di analisi e di sperimentazione, nella speranza che il sociologo clinico – come un medico della società – possa sempre trovare i giusti trattamenti per riluttanti pazienti.
Il medico della società
Ma che fine hanno fatto tutte queste buone intenzioni? Oggi nel nostro paese il medico sociale è un ruolo interpretato da molti, amministratori pubblici, assistenti e operatori sociali, che spesso difettano delle adeguate competenze per comprendere il nesso tra problemi strutturali e dinamiche micro sociali, necessario per distillare il preparato che possa trattare il paziente. Ciò è dimostrato nel dibattito attuale dall’incapacità di comprendere e concettualizzare il disagio e gli effetti di ingenti flussi migratori, fenomeno a cui non eravamo del tutto preparati.
In altri paesi, connotati da una maggiore spesa pubblica, migliore organizzazione e considerazione dei titoli e delle competenze, il sociologo è ritenuto una figura necessaria per garantire l’armonia e la coesione. Ma nel nostro paese ciò non sembra essere stato considerato, preferendo affidarsi a un’eventuale omeostasi naturale, una sorta di autoterapia messa in atto dalla società in balìa di se stessa, considerando l’antica e forte cultura, sia popolare che intellettuale, di cui dispone il nostro paese.
Ostacoli allo sviluppo della sociologia clinica in Italia
Da sociologi sappiamo che le cause dei fenomeni complessi e diffusi sono spesso multifattoriali, come commistione di dinamiche sia culturali che strutturali economiche e politiche. È infatti sufficiente un’occhiata veloce ai fatti e eventi che contraddistinguono i servizi e le politiche di intervento sociale nel nostro contesto territoriale, per ipotizzare la presenza di interessi non sempre chiari che ostacolano la messa a punto di organizzazioni di competenze e l’introduzione di figure di esperti in questo tipo di settori. I tagli alla spesa pubblica, obbligatori in presenza di recessione ormai endemica e vincoli per il pareggio di bilancio (le due cose costituiscono un circolo vizioso) scrivono l’epitaffio sulla pietra tombale dell’embrione della sociologia clinica abortito o mai nato nel nostro paese.
“Gli sbocchi occupazionali più immediati riguardano le attività di counseling sociologico, l’analisi e la conseguenza organizzativa, la valutazione dei programmi e degli interventi sociali, la mediazione sociale, il lavoro di facilitazione nei gruppi, l’advocacy territoriali” spiega l’introduzione a un buon corso di sociologia clinica (fonte: www.unite.it), laddove molte di queste occupazioni, per quanto utili e interessanti, non esistono se non sulla carta e nelle buone intenzioni di quanti pensano ancora di valorizzare la sociologia per mezzo di poco remunerative partite IVA, a fronte dello svuotamento degli albi professionali in assenza di politiche adeguate e volontà coesa di prendere le redini da parte della maggior parte dei colleghi (specialmente i più anziani e inseriti).
Barbara Lattanzi