Non è la prima volta che i media ci mostrano quello che potrebbe essere definito un criminality-show. Talk-show, tg, serie-tv, videogames, processi giudiziari, qualsiasi tipo di media e situazione sociale e istituzionale mostra quotidianamente violenza, carnefici e vittime ma il messaggio che viene costruito e inviato al destinatario mette sempre al centro il criminale che quasi involontariamente diventa un eroe, un personaggio di spettacolo. Nei media trionfa il crimine, la violenza e il carnefice ma nella realtà nessuno vorrebbe un eroe come criminale, nessuno vorrebbe assistere a scene di violenza, sebbene per qualche minuto potrebbe risultare interessante assistere all’azione di un “superuomo” o filmarne le gesta. Già perché tutti desiderano pace e serenità, ma allo stesso tempo si avverte un bisogno patologico di guardare il male, di conoscere la violenza, almeno per qualche secondo che da sempre caratterizza il genere umano (Meluzzi, 2014).

Un nuovo tipo di violenza

Il criminologo americano Randall Collins (2014), dopo l’attentato alle Torri Gemelle del 2001, ha costruito un nuovo paradigma della violenza: l’11 settembre diventa data ufficiale dell’inizio di un nuovo tipo di “violenza contemporanea“. L’evoluzione della società, i nuovi media elettronici e digitali, il fenomeno della globalizzazione, cambiamenti politico-economici e, in particolare, la costante e quotidiana rappresentazione del crimine e della violenza da parte dei mass media, hanno fortemente influito sulle interazioni umane, cambiando radicalmente il modo di relazionarsi e di comunicare, di costruzione e percezione della propria identità e realtà. La contemporaneità viene dunque raffigurata e percepita come pericolosa e violenta, criminale, dove l’interazione tra individui si verifica quasi esclusivamente attraverso i nuovi strumenti di comunicazione digitale, con un rischio sempre maggiore di incomprensione, di relazioni empatiche e quindi di “patologie comunicative” (Marotta, 2014).

Abitudine all’insicurezza

Max Horkheimer e Theodor Adorno
Max Horkheimer e Theodor Adorno

Secondo la sociologa italiana Consuelo Corradi (2009), comunicazione malata e violenza diventano non solo veri e propri strumenti di potere, ma anche forze generatrici di potere, che con esso si confondono: forze sociali capaci di strutturare la realtà e conferirle significato. La realtà in cui viviamo non è per nulla differente da quella cinematografica. L’ottavo Rapporto sulla sicurezza e l’insicurezza sociale in Italia e in Europa (2015) sottolinea come si viva ormai un sentimento ed una situazione di costante abitudine all’insicurezza e alle vicende di criminalità. La criminalità oggi è dunque ancora in testa nell’agenda dell’insicurezza: cambia però la narrazione delle notizie cosiddette “ansiogene”. “Il piacere della violenza che viene inflitta al personaggio rappresentato trapassa a sua volta in una violenza inflitta allo spettatore. Lo svago si trasforma in tensione e sforzo“. Cosi scrivevano i due filosofi della Scuola di Francoforte, Max Horkheimer e Theodor Adorno nella “Dialettica dell’Illuminismo” (1947). L’industria culturale diventa cosi uno strumento di comunicazione persuasiva e di manipolazione con una precisa funzione sociale: creare obbedienza, riconoscere nel pubblico mediatico un ruolo di passività in stretta continuità con la teoria ipodermica (Wolf, 1987).

L’evoluzione del linguaggio

Nella moderna società del web e della comunicazione, si assiste ad un profondo mutamento anche da un punto di vista linguistico: il linguaggio cinematografico e il linguaggio giornalistico, in particolare, diventano oggi pressoché identici; dalla rappresentazione del profilo del criminale, alla descrizione di una scena criminis e delle vittime. Quello che viene comunicato alle audiences  non è un fatto ma un vero e proprio racconto. Un racconto con protagonisti, antagonisti, colpi di scena, flashback, che non sempre in realtà hanno un lieto fine, ma poco importa: lo spettatore è abituato a conoscere il male e questa abitudine non fa che rafforzare (non aumentare) il senso di insicurezza e paura che da tempo fa parte dell’individuo e della moderna società. Un racconto che spesso non segue nemmeno delle logiche temporali, che mette da parte il concetto di privacy e libertà, al fine di raggiungere un numero di click elevato e dominare nel mondo del marketing giornalistico (Forti, Bertolino, 2015).

La ricerca spasmodica dello scoop

Suggerisce il criminologo Meluzzi, come siano due i principali fattori che alimentano  questo tipo di meccanismo: quello del misterioso storytelling giallistico (fin dall’inizio si fa un’enorme difficoltà a comprendere quale sia la verità e come sia avvenuto quel fatto) e  quello legato al processo penale mediatizzato, che ha inevitabilmente incurvato il meccanismo di formazione della giustizia e aperto le porte ad un pubblico non sempre pronto e interessato alle situazioni giuridiche. Per Walter Benjamin, nel momento in cui un evento o un atto divengono riproducibili in una prospettiva di massa, cambia la loro natura perché muta la raffigurazione e la sostanza. Si è creata cosi una ricerca della notizia, dello scoop mediatico a tutti i costi, anticipando pericolosamente degli esiti giudiziari. L’informazione, quindi, è stata veicolata attraverso brevi articoli o annunci, perdendo quel nobile obiettivo di un’informazione precisa ed equilibrata e lasciando il posto a veri e propri processi mediatici e spettacolari notizie di delitti, stupri, attacchi terroristici che assumono più sembianze hollywoodiane che di sana informazione.

Il processo di coltivazione

George Gerbner
George Gerbner

Lo spettatore-cittadino curioso s’interessa e partecipa passivamente ai processi e alle indagini, impaziente di completare quel cruciverba cosi tanto contorto ma con una capacità di empatia, di compassione cosi bassa verso chi ha subito un atto violento, da renderlo quasi un non-umano; sembra quindi essere destinato ad adattarsi costantemente; appare domato, obbediente, modellato in base ai contenuti mediatici (Gerbner, 1971). Continui  messaggi violenti ed immorali possono favorire l’identificazione con personaggi negativi o antisociali e comportamenti emulatori: l’azione suggestiva è tanto più sottile quanto meno è palese la comunicazione, che può suggerire risposte specifiche nello spettatore o nel lettore, senza che questi se ne renda conto. Come lo studioso George Gerbner (1971) sosteneva, si attiva quello che viene definito un “processo di coltivazione” ovvero un processo continuo, dinamico, in sviluppo di interazione tra messaggi, audiences e contesti.

Il lato oscuro della Rete

Anche la Rete e i media digitali presentano un loro lato oscuro. Si è passati da una comunicazione identificativa con i media elettronici, a una comunicazione “anonimizzata” con i media digitali, dove informazioni e utenti spesso non hanno fonte, non hanno identità, c’è un flusso comunicativo che ha un inizio e che si muove velocemente all’interno di una realtà che non ha fine, dove vengono filtrati tutti i comportamenti umani. Il web, i social network, ci hanno resi tutti cittadini attivi all’interno di uno spazio virtuale dove riceviamo notizie in tempo reale, le discutiamo, le confrontiamo, le condividiamo e approfondiamo senza limiti di tempo e spazio (Menduni, 2009). La multimedialità e le nuove rappresentazioni virtuali differenziano i nuovi media dai tradizionali e vanno ad incidere anche su cultura e comportamenti, aumentando l’identificazione tra modello e target di riferimento e la costruzione di auto-efficacia, in quanto ciò che viene offerto è estremamente somigliante alla realtà.

Delinquenti 2.0

Uno dei principali rischi infatti, è proprio quello legato alla difficoltà di percezione e di discernimento tra la “reale realtà” e quella virtuale-mediatica che investono anche la sfera privata, influenzando le credenze, i valori, i modelli di comportamento che orientano la nostra vita quotidiana, in un processo di coltivazione che inizia fin da bambini. L’elettronica, l’informatica ed Internet hanno decisamente modificato il modus operandi e vivendi delle imprese, dei comuni cittadini ma anche di chi compie attività criminali. L’anonimato, gli slang, la velocità e la brevità dell’informazione, i dati criptati, la costruzione di personalità differenti online, l’inserimento e la condivisione di file di qualsiasi natura, favoriscono la messa in atto di azioni illegali coinvolgendo anche individui che, in assenza di uno schermo e di una rete internet, non avrebbero mai avuto  il coraggio di compiere certe azioni (Lorusso, 2011). Paradossalmente, sono dunque proprio gli utenti che utilizzano chat e social network a sentirsi liberi di delinquere, la loro immaginazione in rete non ha più confini, il cyberspazio è un luogo ingannevole, sensuale e violento (Lorusso,2011).

La cultura della violenza

In base ad uno studio del sociologo americano David Finkelhor (2008), le vittime del cybercrime oggi sono soprattutto minori e il contatto con il proprio carnefice avviene principalmente online, chattando in apposite chat-room riservate e precisamente attraverso Instant message (10%) ed email (5%). Inoltre, dopo gli ultimi attacchi terroristici avvenuti a Parigi il 13 novembre 2015, l’International Centre for the Study of Radicalisation (ICSR) di Londra ha scoperto come social network, chat, tweet, fossero improvvisamente diventati mezzi di propaganda e di reclutamento di criminali terroristi con più di 27mila account attivi in rete. Cyber-bulli, cyber-pedofili, cyber-terroristi, sono dunque questi i nuovi criminali e questa è la comunicazione violenta contemporanea, questi sono i moderni “criminali-supereroi”, che non sempre hanno un nome o un volto ma che mediaticamente ancora funzionano e incuriosiscono. Realtà devianti quelle mediatiche, virtuali e sociali dove non ci sono più confini e il rischio di distorsione e apprendimento di alcuni comportamenti e linguaggi diventa sempre più concreto. Questo sistema ormai comune di comunicare rappresentare e raccontare determinati fenomeni e individui da parte dei media e l’incontrollabile ed eccessiva curiosità dello spettatore di conoscere la violenza a tutti i costi e cosi presente in Rete senza limiti e tutele, non fa altro che rafforzare quell’individualismo, quell’aggressività, quella voglia di dominio e controllo sull’altro che caratterizzano, oggi più che mai, le relazioni umane e l’inizio di una nuova “cultura della violenza” (Gallino, 2006). Non è quindi solo un problema di comunicazione-relazione, ma anche un profondo problema culturale. Non esiste più un unico centro culturale, ma una pluralità di opzioni valoriali molto spesso contraddittorie e differenti o meglio ancora, una pluralità di subculture (spesso devianti e violente ) definite come sottoinsieme di elementi culturali, condivisi dagli elementi di un gruppo, inteso come “relazionalità interna più consistente di quella esterna, che si pongono in aperta o celata opposizione alle norme e ai valori propri della cultura dominante nella quale sono inseriti” (Cipolla, 1997).

Giacomo Buoncompagni

Print Friendly, PDF & Email