Secondo uno studio condotto dall’Unione Italiana Food, gli italiani dedicano circa il 28% del loro tempo in attività che hanno a che fare con il cibo (cucinare, fare la spesa, frequentare ristoranti) e il volume d’affari che ruota intorno ad esso sfiora i 135 miliardi di euro. L’interesse per il cibo era stato reso evidente alla fine dell’800, quando l’antropologia culturale associa ad esso una dimensione strettamente simbolica. Questa disciplina si è interessata principalmente allo studio delle pratiche che vertono sul cibo nelle diverse culture mondiali, soffermando l’attenzione sul consumo e sulla sua storia. Fino ad allora non era stato oggetto di riflessione perché si associava ad un ambito strettamente domestico e non pubblico. Successivamente anche la sociologia inizia ad occuparsene, ritenendo il cibo un elemento socialmente costruito a tutti gli effetti. Ogni società ha un proprio bagaglio di riti ed usi legati all’alimentazione che lo rendono un complesso fatto sociale. Sono molti gli autori che si sono avvicinati nel tempo all’argomento.

Il cibo nella sociologia

Ne “La situazione della classe operaia in Inghilterra” (1845) di Engels, il cibo assume una forma di rivendicazione della classe operaia inglese verso lo stato che li amministra. Il tema del basso salario è legato alla sussistenza ed è proprio la scarsità di cibo che causa malattie all’interno della società. Simmel nel suo scritto “Sociologia del pasto” (1910) intuisce che nel carattere dell’alimentazione vi si può ritrovare la dicotomia tra individuo e società: mangiare e bere sono le attività più comuni che l’individuo fa. Il sociologo parte dal pasto per mostrare come il bisogno naturale si trasformi in una serie di regole comuni; in questo lungo percorso l’uso della mani viene sostituito dalle posate e le buone maniere prendono il posto delle gesta grezze e fuori luogo. Nell’analisi fatta da Durkheim nella sua opera “Le forme elementari della vita religiosa” (1912) il cibo rientra nel modello rituale, di cerimonia, attraverso cui gli individui riconfermano la loro appartenenza alla collettività.

Un simbolo identitario

Nelle teorie di James, e in parte in quelle di Parsons, il cibo si lega all’identità. Com’è noto, alla base della costruzione identitaria vi sono due processi fondamentali: l’appartenenza e la differenziazione. Se l’identità si esprime anche nella condivisione di usi e di valori, anche l’alimentazione costituisce un elemento identitario di appartenenza. Ogni paese ha le sue abitudini alimentari e il cibo diviene simbolo identitario non solo di un territorio, ma anche di una nazione, di un’etnia. Moltissimi antropologi come Levi Strauss e Douglas confrontano usanze e comportamenti culinari di differenti culture e mettono alla luce come il cibo etnico diviene un elemento di confine simbolico di demarcazione tra noi e gli altri. I principali esponenti della Scuola di Francoforte, Adorno, Horkeimer e Marcuse, inseriscono il tema dell’alimentazione come bene di consumo: è attorno al cibo che si creano quasi tutte le relazioni sociali. La diffusione di massa dei beni di consumo era la causa dello stato di alienazione degli individui nel periodo capitalista; le merci, e quindi anche il cibo, rappresentano valori in grado di influire sulle relazioni sociali. Su questo filo di pensiero si riallaccerà anni dopo anche Bauman, secondo il quale la società attuale plasma le persone in modo tale che esse svolgano la funzione di consumatori passivi.

Per concludere si può affermare che da sempre il cibo ha una valenza cerimoniale, che si realizza quando un pasto diviene occasione di incontro non solo tra i membri della famiglia; una valenza socializzante che permette di rinforzare i legami sociali; una valenza identitaria quando diviene trasmissione di valori ed usanze culturali; una valenza economica poiché riflette le condizioni di benessere economico di una data realtà.

Elena Salvini

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