I processi di comunicazione digitale delle pratiche e la nascita di nuove forme religiose degli ultimi anni spingono a riflettere sul processo di secolarizzazione. Cosa è venuto meno realmente se la fede in una entità trascendente rimane viva ancora oggi? Perché l’esigenza di andare a messa si manifesta in questo periodo di quarantena e soprattutto in situazioni come la Pasqua? È utile, per provare a rispondere, osservare bene il tempo che stiamo vivendo, avendo sottomano alcune considerazioni e ricerche di alcuni sociologi della religione.

Secolarizzazione?

Martin Lutero

Sabino Samuele Acquaviva sostiene che il processo di secolarizzazione (proprio in quanto processo) è in grado di dare vita a nuove forme dell’essere religiosi. Non si tratta quindi di un lento e inesorabile distanziarsi dalla religione così classicamente definita, ma di un discorso, una messa in crisi della stessa e della sua identità come un complesso di “chiese”. Si tratterebbe quindi di un paradosso che Franco Ferrarotti ben descrive nel suo omonimo testo del 1983, in cui la religione organizzata è “intimamente dissacrante e l’esperienza pura del sacro, anche nel suo rapporto con il divino, è bloccata anziché aiutata dalla ierocrazia religiosa”. Se la religione viene infatti spogliata delle sue forme esteriori  –  non liturgiche ma appunto di forma  –  trova nuove maniere per vivere l’esperienza del sacro che, si rammenti, è antecedente ai culti monoteistici, ed è l’unica pratica veramente basilare che non può essere eclissata o sostituita.

La sicurezza dentro di sé

Se nella contrapposizione tra religiosità ecclesiastica e religiosità individuale la ricerca dell’identità e dell’autonomia ha portato la vittoria della seconda, ciò a cui si è andato incontro pagandone lo scotto è la diretta assunzione dei rischi delle proprie scelte e azioni da parte delle persone. In un contesto indeterminato e dalle scelte multiple come la contemporaneità, l’auto-identità diventa un progetto altamente – se non esclusivamente – autoriflessivo. Esso, come ci ricorda Giddens, consisterebbe nel sostenere narrazioni autobiografiche coerenti in costante rivisitazione, dove la realtà quotidiana viene interamente costruita dalla dialettica locale (la famiglia, la cerchia di amici) globale (la nazione, il complesso di relazioni mondiali). In questo quadro già di per se complesso, il limite della prossimità della manifestazione collettiva della religiosità che stiamo vivendo comporta una ulteriore destabilizzazione identitaria.

In eros, morte ed esperienza religiosa del 1990 troviamo una riflessione di Acquaviva che può aiutarci. Egli considera la religione, attraverso la sua pratica e l’esperienza, come deterrente “anche per superare in toto o in parte lo stress derivante dai limiti alla soddisfazione di una serie di bisogni”. Questi andrebbero a convogliarsi tendenzialmente in una mancanza amorosa sia fisica che psichica, la cui risoluzione avverrebbe nella ricerca dell’amore di Dio. Questa componente biologica, psicologica e antropologica che porta alla credenza sarebbe la componente basilare per i comportamenti delle persone in crisi: il ritorno del sacro non è mai un vero ritorno, ma una rimembranza di un retaggio culturale intimamente interiorizzato, legato all’esigenza di essere rassicurati. Una sicurezza che, nel caso di nemici invisibili come i virus, viene costantemente messa alla gogna ed eccitata.

Pasqua digitale

Il Papa impartisce la benedizione Urbi et Orbi a Pasqua 2020

Il Papa impartisce la benedizione solo in tre occasioni: quando viene eletto Successore di Pietro, a Natale e a Pasqua. Per questo si può dire che nella storia non aveva mai avuto luogo in precedenza una benedizione “Urbi et Orbi” di un Papa in una Piazza San Pietro vuota, seguita a livello mondiale dai credenti grazie ai mezzi di comunicazione. Un momento storico, simbolicamente rilevante e interessante da vedere, vivere, studiare, credenti o meno.

La rivoluzione a cui stiamo assistendo (si pensi che l’ultima occasione di un simile interesse si è avuta durante il giubileo del 2000 con l’emittente vaticana che ha garantito 1000 ore di televisione) passa anche per l’uso delle tecnologie comunicative di massa e quindi la costituzione di nuove forme di effervescenza collettiva.

La persistenza della pratica religiosa, questo desiderio di esserci sempre e comunque nonostante il pericolo contagio, non è tanto – o comunque non solo secondo Liliane Voyé – frutto di una azione socializzata volta allo scopo, quanto invece il desiderio di una cultura locale di percepirsi come cultura globale (si pensi all’interdipendenza del destino e del compito di Kurt Lewin)  al cui interno le famiglie mantengono un ruolo rilevante. L’andare – o nel nostro caso stare – a messa diventa una sorta di istituto di istituzione culturale, che trasforma un gesto ripetuto in azione peculiare dell’appartenenza culturale. Il gesto della partecipazione festiva è in grado di scandire il ritmo stesso della vita quotidiana, di condizionarlo e gestirlo. Ecco perché sentiamo testimonianze di persone che hanno come priorità il frequentare un luogo di culto, di voler combattere il virus “a suon“ di preghiere.

La messa in onda è finita, andate in pace

Sembra utile ai fini del discorso segnalare che nel corso della rassegna ideata dall’Università  Suor Orsola Benincasa di Napoli “La quarantena con la cultura” è stata proposta una riflessione su tali temi da Marino Niola, docente di Antropologia dei simboli e direttore del MedEatResearch del medesimo ateneo, secondo cui  per la prima volta al tempo del Coronavirus la Pasqua è diventata digitale. Ad essere protagonista della liturgia pasquale non c’è più la folla che celebra in strada o nelle Chiese la resurrezione del Dio ma ci sono funzioni sacrali che si celebrano sul web senza concorso di popolo. I riti pasquali viaggiano in streaming, tutto è visibile ma tutto è vuoto. Niente processioni e sacre rappresentazioni nè profane scampagnate: questa volta la partecipazione alla Pasqua non si misurerà in presenze ma in click.

Francesco D’Ambrosio

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