La “pseudospeciazione” (Romano Màdera, ndr) teorizzata dall’etologia umana, è un termine poco usato nelle scienze umane nonostante riguardi i fondamenti stessi della cultura umana. La “pseudospeciazione culturale” sarebbe la tendenza a rafforzare e rendere costume comune e norma un differenziamento rispetto al vicino prodotto dalla necessità di mantenere la coesione di gruppo per adattarsi a condizioni di possibilità culturali diverse, fino però a creare comportamenti che superano le inibizioni legate all’appartenenza alla stessa specie: gli umani non riconoscono come umani altri umani e creano dunque una “pseudospecie” che, come tale, puo’ essere aggredita fino all’uccisione – un evento che, tra primati e mammiferi, accade solo in situazioni molto particolari o per eccezione.
Il capro espiatorio
Il gruppo agisce come unità e le relazioni fra gruppi tendono a seguire le stesse regole delle relazioni interpersonali, condizionati da caratteristiche ambientali e da finalità di azione sentite comunitariamente. Con la differenziazione si va quindi perdendo la propria individualità. Vi è infatti una forte predisposizione ad adeguarsi all’opinione comune, che a volte può assumere forme grottesche.
Freud, nell’ambito della psicologia sociale o “psicologia delle masse”, parla di “pulsione sociale – herd instinct, group mind [inglese: istinto gregario, psiche collettiva]”: un moto pulsionale che induce il singolo, membro di una formazione collettiva, o “massa psicologica” (stirpe, popolo, casta, ceto sociale, istituzione o raggruppamento più o meno organizzato in vista di un determinato fine), in determinate circostanze, a sentire, pensare e agire in maniera diversa da come si comporterebbe isolatamente, in virtù di quella che Le Bon chiama “anima collettiva”, straordinariamente influenzabile, credula e acritica, in cui affiora “l’inconscio razziale”, tenuto a freno in condizioni di isolamento, e “l’eterogeneo sprofonda nell’omogeneo”, che si viene a creare con il “contagio mentale”, effetto della “suggestionabilità”.
L’individuo cade in una sorta di fascinazione, e, come l’ipnotizzato, al pari di un automa, non è più consapevole e responsabile di quello che fa, tale per cui nella massa, è impulsivo, eccitabile, brutale e distruttivo come un barbaro o un animale selvaggio: “ha la spontaneità, la violenza, la ferocia e anche gli entusiasmi e gli eroismi degli esseri primitivi”.
In tal senso, afferma Màdera, la pseudospeciazione può costituire una base per affrontare l’uso culturale delle costruzioni del “’capro espiatorio’ come ‘condizionamento dei comportamenti collettivi’ alla base del superamento delle inibizioni che limitano a circostanze molto particolari o proibiscono del tutto di distruggere membri della stessa specie”.
Tecniche di mostrificazione
Le tecniche di mostrificazione – i rituali che preparano alla sfida violenta (da movimenti, suoni, costumi o divise speciali, fino all’ingestione di sostanze, alcolici o stupefacenti), creando una distanza, sono infatti tese alla modificazione della percezione e alla creazione di stati alterati di coscienza per riuscire a superare l’inibizione naturale a uccidere: tendono a trasformare la percezione dell’altro in qualcosa di estraneo, “altro” e mostruoso, così minaccioso e svalutato da poterlo opprimere o uccidere come se fosse di un’altra specie, tale da sovrascrivere i meccanismi naturali del mutuo riconoscimento di specie.
Si tratta del rovesciamento del riconoscimento specie-specifico in misconoscimento, secondo gradazioni diverse: dall’umiliazione (con la derisione e il pettegolezzo) all’esclusione (soprattutto nei casi di menomazione mentale), che nega i diritti in quanto membro di una data comunità; dal disprezzo di modi di vivere, credere e pensare che intacca la stima di sé e del proprio gruppo, a ogni forma di moral injury.
Proprio perché il misconoscimento mina le basi del riconoscimento originario, prosegue Màdera, esso è così potente sia per i perpetratori che per le vittime. E diventa uno dei meccanismi fondanti delle identità collettive, delle maschere sociali. Si può supporre che tutto ciò che la maschera sociale dell’identità di gruppo cerca di nascondere, di reprimere o di rimuovere, venga a creare ciò che possiamo chiamare parti dell’inconscio, oppure aspetti d’ombra, o ancora “doppi impresentabili”: tratti nascosti e disprezzati che vengono proiettati sugli altri, fornendo il materiale fantasmatico per la creazione del nemico come mostro, e, all’interno del gruppo come all’esterno, per individuare i “capri espiatori”.
Tanto che, come scrive Kristeva a proposito dello straniero, riprendendo Freud, “quando fuggiamo o combattiamo lo straniero, lottiamo contro il nostro inconscio, contro la nostra “inquietante estraneità”, una “depersonalizzazione (..) che si ricollega ai nostri desideri e alle nostre paure infantili dell’altro”.
Identità sdoppiata
E, ancora, Kristeva (2014) parla di “identità sdoppiata, caleidoscopio di identità”, e afferma come non si dovrebbe “cercare di fissare, di cosificare l’estraneità [ma] sottrarsi al suo odio e al suo peso (..) con la ripresa armoniosa delle differenze che essa presuppone e propaga”: un’estraneità “sollevata, alleviata, disseminata”, verso la fondazione di quella che Kant definisce una “federazione di popoli“, un “generale ordinamento cosmopolitico”, un tutto-sociale non omogeneo ma mantenuto come un’alleanza di singolarità”, una “diversità coordinata”, giacché, riprendendo il ragionamento universalista di Montesquieu (la sua idea di una sociabilità umana e di uno “spirito generale”), “lo Stato che crede di aumentare la propria potenza rovinando lo Stato vicino, solitamente s’indebolisce assieme ad esso”.
Così la figura dell’altro viene demonizzata, mostrificata, resa quindi disponibile a ogni sorta di angheria e tortura, fino all’eliminazione: come afferma Màdera, “l’obiettivo, visto da un aereo da combattimento, compare come una crocetta su uno schermo: gli umani sono invisibili, la distruzione un suono lontano e un’immagine astratta.” Ci vuole cioè una profonda trasformazione culturale della percezione per “neutralizzare il circuito della risonanza empatica”, “bisogna che intervenga una ristrutturazione valutativa che decida che l’attacco al ‘nemico’ possa superare le barriere di specie e lo possa quindi trattare come altro dall’umano”.
“Un indottrinamento teso a declassare il nemico a livello di razza inferiore”, scrive Eibl, a disumanizzarlo, tale per cui gli uomini arrivano a parlare dei loro nemici come se fossero solo “prede di caccia, o individui di razza inferiore pieni di difetti”. Gli Eipo della Nuova Guinea ad esempio ingiuriano i propri avversari chiamandoli mosche del letame, lucertole e vermi. In parallelo, avviene una sovrastima di sé come esseri superiori.
Aggressività e identità
Esiste un tipo di aggressività, quella esplorativa, che vale tanto per l’essere umano in età infantile e giovanile quanto per i capi di stati neoformati e gli appartenenti a subculture, che viene usata per sondare lo spazio di azione, tale per cui una mancata risposta porta a un aumento della richiesta. “Mentre all’inizio – spiega Eibl-Eibesfeldt (1993) – del confronto un chiaro ma amichevole ‘no’ avrebbe evitato il conflitto, in caso di escalation sono necessarie di regola misure sempre più repressive per porre un freno all’aggressività”.
Esiste anche la guerra ideologica, che va dalla propaganda aperta fino alla persuasione: “è sicuramente possibile giungere a risultati determinanti quando si riesce a far nascere nella mente del nemico convinzioni e idee che alla fine lo inducono a far ciò che si vuole da lui”. Metodi di solito combinati con quelli psicologici dell’adulazione, dell’intimidazione e della paura. Si tratta comunque di una sorta di entusiasmo collettivo per la lotta a favore del gruppo, a cui sono collegate reazioni arcaiche. La paura della critica sociale ad essere considerati vili, insieme all’avidità di bottino, all’odio e al piacere competitivo, giocano un ruolo importante. La guerra ha quindi carattere strumentale e fintanto che non lo si riconosce è impossibile trovare modi pacifici di risoluzione dei conflitti.
Eibl: La guerra è un fenomeno patologico
Come affermato dalla Medical Association for the Prevention of War (1963), “la guerra è un fenomeno patologico, ma è l’espressione di una patologia insita nella stessa società umana, e ha origine dall’accettazione di ideologie che sono dannose per il bene dell’umanità”. Se con il nostro comportamento abbiamo minato le basi di fiducia reciproca, contro l’aumento della diffidenza originata dalla paura che a sua volta porta a denigrare il nemico e a elevare barriere per reciproche comunicazioni, e ci siamo quindi preclusi delle alternative, “ciò può avere gravissime conseguenze; la disumanità non è adattativa”.
Inoltre, fintanto che rimangono in piedi una serie di tabù di evitamento del contatto, un armistizio può durare anche anni. Infine, occorre che vengano accettate proposte di pace tali da evitare un’eccessiva umiliazione dell’avversario, senza pretendere una “capitolazione incondizionata”: “la paura di perdere la dignità spinge l’avversario a lottare fino all’annientamento, aumentando in tal modo, senza alcun vantaggio, le sofferenze umane” (Eibl-Eibesfeldt I.,1993).
L’autorealizzazione solidale
Questo stesso processo in modi e tempi diversi, è accaduto e accade tra popolazioni di ogni religione e di ogni ordinamento politico-sociale: sottoumani o non umani sono sempre “gli altri”, dagli eretici agli apostati, dai “perfidi giudei” ai musulmani, dalle streghe ai “selvaggi” del nuovo mondo fino alle stesse donne.
Meccanismo, afferma Màdera, un tempo funzionale alla sopravvivenza dei singoli che ha portato alla molteplicità delle culture, con l’aumento della capacità adattiva in situazioni di crisi: l’unità del gruppo è la prima e la più importante risorsa in epoche nelle quali le tecniche a disposizione per poter usare le risorse di un certo territorio sono fondamentalmente legate alle persone stesse che devono apprenderle in un lungo apprendistato e che, quindi, si identificano con le loro abilità fisiche e psichiche (si direbbe l’organizzazione della divisione tecnica del lavoro).
Si puo’ dunque capire la funzione necessaria della pseudospeciazione fino alla rivoluzione del capitalismo industriale, in condizioni di forti differenze geografiche, sociali e culturali, in competizione per l’utilizzo di risorse spesso scarse. Ma nella società moderna pluralistica l’aggressività volta al mantenimento della norma è un ostacolo, in quanto spesso sono coloro che si distinguono per le loro prestazioni artistiche e scientifiche a contribuire al progresso della comunità.
Màdera: Ecotopia
L’umanità è diventata realmente universale. La configurazione storica del capitalismo globale, realizzando il passaggio dalla “interdipendenza locale” alla “interdipendenza globale”, l’interdipendenza di tutti da tutti e da tutto, ha liquidato le condizioni che hanno reso funzionale alla necessità della sopravvivenza dei gruppi, dei popoli e degli stati, i meccanismi della pseudospeciazione.
La pseudospeciazione e il suo corteo di guerre civili intra-specifiche, violazioni, esclusioni, umiliazioni e disprezzo per l’alterità umana, diventerà sempre più controproducente, inefficace e autodistruttiva per tutti: “la riduzione di tutte le culture a mercato variopinto di un’unica rete di informazione-comunicazione-spettacolo (..) senza un patto di convivenza – di pace e di equilibrio – fra tutti i popoli e fra umanità e natura, distrugge le capacità adattative della pseudospeciazione, esaltandone al contempo i riflessi difensivi e aggressivi di potenza e di superiorità sugli altri”, minacciando di diventare un meccanismo di autodistruzione della specie – a proposito dello sfruttamento della terra, Màdera parla di “ecotopia”:
“non essendo arrivati a una coscienza solidale planetaria, ma solo a una rete planetaria di produzione e di scambi, non riusciamo a percepire il vincolo di appartenenza, di destino, che ci accomuna al cerchio della vita”, così dilapidiamo eredità di milioni di anni e tagliamo il ramo sul quale siamo seduti; dovremmo invece coltivare la cultura del luogo che abitiamo, la terra, seguendo il comandamento della necessità di una convivenza planetaria, dove di comune non esiste nessun Dio esclusivo e bellicoso o dottrina unica, ma la ricerca della comprensione reciproca, mettendo la propria individualità al servizio di un’”autorealizzazione solidale”.
Màdera: Follia epidemica
Si tratterebbe, prosegue Màdera, di una “follia epidemica della guerra non dichiarata (e quindi senza regole) di tutti contro tutti”: l’immagine del nemico è diventata “onnipervasiva”, “l’insicurezza corrode di ansie e fobie ogni legame fra gli umani, e crea l’humus di una guerriglia civile molecolare, sempre latente ed esplosiva alla prima occasione”; “un distanziamento sociale, differenziante ma cooperativo” potrebbe sostituire il meccanismo della pseudospeciazione, verso un “sincretismo biografico” inteso come “condivisione solidale del percorso di ognuno”.
“Quante catastrofi – conclude l’autore – saranno necessarie perché l’umanità arrivi a capire cosa è diventata – cioè appunto umanità come universale concreto”, e che è necessario ogni sforzo “che si ponga nella direzione di senso della costruzione, spirituale e materiale, della cooperazione globale”?
Ilaria Borrelli
Riferimenti bibliografici
- Eibl-Eibesfeldt I. (1993), Etologia umana. Le basi biologiche e culturali del comportamento, XII, a cura di Rossana Brizzi, Felicita Scapini, Torino, Bollati Boringhieri, capp.4,5 (ed.orig. 1984)
- Freud S. (1975), Psicologia delle masse e analisi dell’io, 1921, Torino, Bollati Boringhieri
- Kristeva J. (2014), Stranieri a noi stessi. L’Europa, l’altro, l’identità, nuova ed. accresciuta, Roma, Donzelli, capp.1,7,8 (ed.orig. 1988)
- Màdera R. (1999), L’animale visionario, Milano, Il Saggiatore Màdera R. (2021), Dalla pseudo speciazione al capro espiatorio, saggio disponibile sul sito https://www.massenpsychologie.com/2021/03/10/dalla-pseudospeciazione-al-capro-espiatorio/