La Medicina Narrativa – o Narrative Based Medicine (NBM) – è un approccio nato in USA e riguarda il rapporto medico-paziente (microsociologia) e il rapporto salute-malattia (macrosociologia). La Narrative Based Medicine nasce negli anni ’70 come risposta alla crisi del sistema sanitario: aumentano le malattie neurodegenerative di lunga degenza, la crisi economica porta a tagli della spesa sanitaria, i medici “burocratizzano” le loro azioni cliniche e gli utenti hanno meno fiducia nel sistema sanitario.
La malattia come esperienza soggettiva
La medicina narrativa diventa, con Arthur Kleinman e Byron J. Good, una disciplina consolidata, ma in Paesi come l’Italia è ancora ai primordi. La NBM, infatti, non è solo un metodo, ma è un modello culturale che si aggiunge – non si impone – alla visione medica classica: l’Evidence Based Medicine (Giarelli e Venneri 2009). L’EBM definisce la malattia come un’alterazione biologica del corpo e diagnosi, prognosi e cura sono atti clinici mirati a “normalizzare” tale alterazione. La Narrative Based Medicine, invece, vede la malattia non sono come alterazione biologica, ma come esperienza soggettiva che intacca oltre il corpo anche l’aspetto sociale, culturale e psicologico del paziente. Arthur Kleinman elabora, appunto, il “triangolo terapeutico” (Cipolla e Maturo 2008) per catturare tutte le dimensioni della malattia che viene vista come disease, sickness e illness. La malattia come disease è l’alterazione puramente biologica del malato; la sickness è la malattia vista in termini di mutamento sociale; la malattia come illness, infine, è l’esperienza soggettiva del malato.
Da malato a paziente
La sociologia della salute ha dato il suo contributo alla NBM elaborando un impianto concettuale intorno al rapporto medico-paziente. Un concetto molto importante, elaborato dalla disciplina, riguarda una distinzione che ancora oggi crea molta confusione: la differenza tra malato e paziente. A riguardo, il sociologo Edward Suchman ha creato i cinque “stadi della malattia” che vanno dalla fase iniziale di percezione dei sintomi da parte del malato, alla fase finale in cui lo stesso viene coinvolto nel sistema medico e infine curato (Suchman 1965). Il quarto stadio è quello in cui Suchman distingue il malato e il paziente, nello specifico “essere malato” significa percepire soggettivamente la malattia: dolori, sensazioni, cambiamenti fisici, emozioni e sentimenti. Il malato, poi, diventa un paziente quando entra nel sistema sanitario e crea un rapporto di dipendenza con il medico. Perciò, quando un individuo è malato la patologia è, per così dire, una sua espressione individuale e soggettiva, l’illness per essere più precisi. Quando l’individuo è un paziente, invece, la malattia è un’elaborazione sociale, frutto di un compromesso tra il significato soggettivo del malato e quello oggettivo della medicina.
La narrazione tra medico e paziente
Il rapporto medico-paziente è, forse, uno dei più complicati nella storia dell’umanità: il cinema lo rappresenta spesso con uno sguardo a volte ironico, al limite del grottesco, come nel film “Frankenstein Junior“, quando il dottor Frankenstein urla l’iconica frase “si può fare” riferita al progetto, per nulla etico, di “ricreare” un essere vivente. Altre volte il cinema impegnato parla di empatia, e come non citare il film rimasto nel cuore di tutti, “Patch Adams“, titolo con il nome del medico più empatico e alternativo di sempre, interpretato da Robin Williams. Il rapporto tra medico e paziente ha un elemento che lo accomuna a tutte le attività umane: la narrazione. Quando il medico riceve il paziente nel suo ambulatorio con un saluto, quando il paziente inizia a raccontare i suoi sintomi, quando il medico compila la cartella clinica, quando il paziente firma un documento o chiede quali medicine prendere, tutto ciò è narrativo. La narrazione fa parte di noi e non è solo dialogo, comunicazione o informazione è tutto questo messo insieme. Secondo Byron J. Good, la narrazione diventa una pratica clinica quando il paziente racconta la malattia, gli dà un senso cronologico e semantico: gli dà ordine e significato (B.J. Good 2006). Ma la narrazione è anche un processo, come direbbe Husserl, di “oggettività intersoggettiva”(Husserl, 1965) ovvero in quanto realtà soggettivamente costruita nell’interazione sociale, essa coinvolge anche il medico nella sua elaborazione. La narrazione del medico, infatti, è importante per aiutare il paziente a costruire la storia della malattia, non solo nella sua logica spazio-temporale, ma anche nel suo significato. Il processo narrativo, quindi, è un compromesso tra il racconto del paziente e quello del medico, alla fine si avrà un unico racconto e il paziente sarà in grado di elaborare, cognitivamente, la malattia come un evento che può sconfiggere. Ma, se il medico non apporta il suo contributo narrativo, il paziente sarà solo nel dare senso all’evento-malattia, significato che sarà pieno di “buchi” semantici. Il medico, quindi, deve intervenire nelle pericolose “nicchie” della storia di malattia, solo così potrà aiutare il paziente a non perdersi nei meandri delle sue incertezze cognitive. Bryan, un ragazzo analizzato da Byron Good (2006), prima di “provare” la medicina narrativa, percepiva la sua patologia cronica come la dissoluzione della sua stessa identità: “…[ci sono] anche quei momenti in cui credo di… esser fuori da me stesso, tutta questa cosa con cui ho a che fare è, ah, una massa deperita di tessuto, e io quasi guardo a essa di nuovo in quel modo; come se la mia mente fosse separata […] dal mio io, suppongo. Non mi sento armonico. Non ho la sensazione di essere una persona completa“.
Valentina Boi