Tutti noi cerchiamo di vivere in una realtà unica, che non ci preoccupa, tenendoci a debita distanza dalle situazioni marginali come la morte: noi sappiamo che cosa è reale per noi e diamo per scontato che ciò che ci circonda è reale. Tutto parte dalla realtà per eccellenza, ossia il mondo della vita quotidiana che si presenta come costellato di oggetti culturali materiali e immateriali, che esistono prima e al di là di noi, e che possiamo comprendere entro una precisa cornice di senso e un preciso significato grazie al linguaggio. È un mondo intersoggettivo, poiché condividiamo un senso comune rispetto a questa realtà. Nell’interazione gli schemi di tipizzazione guidano il comportamento, e fanno in modo da semplificarci (cognitivamente) questa vita in costante relazione.
Ciò che sconvolge la nostra esistenza sono le sopracitate situazioni marginali, che modificano il corso del nostro “quieto vivere”, quell’orizzonte di senso che ci siamo costruiti con tanta fatica. La situazione marginale per antonomasia, come anticipato, è la morte. Facciamo di tutto per evitarla, anche nei discorsi, ma essa è parte di noi, è parte del nostro pensarci come esseri umani. Non a caso Martin Heiddeger (1991) parla dell’umano definirsi come «una presa di coscienza degli uomini della propria finitudine» ed Alfred Schutz (1962) si riferisce ad essa come l’«ansia fondamentale» dell’esistenza umana.
Integrare la morte nel vissuto
Nel corso della storia l’uomo ha dovuto interfacciarsi sempre con il problema della cessazione della vita, creando degli universi simbolici a cui riferirsi, che potessero spiegare e dare senso al mondo, ed in particolare a mitigare il terrore verso questo ignoto ed imprevedibile accadimento. Questi «corpi di tradizione teoretica che integrano le diverse sfere di significato e abbracciano l’ordine istituzionale in una totalità simbolica» (Peter Berger, Thomas Luckmann, 1969, p.136) forniscono agli individui tutti gli strumenti conoscitivi per dare un senso alle proprie azioni da compiere, una via preferenziale di comportamento che si ricollega ad un preciso ordine del mondo.
L’integrazione della morte nella realtà dominante dell’esistenza sociale è di fondamentale importanza per ogni ordine istituzionalizzato. Tutte le legittimazioni della morte devono svolgere lo stesso compito: devono permettere all’individuo di continuare a vivere nella società anche dopo la morte di persone a lui care e di prevedere, in una certa misura, la propria. In definitiva, ogni ordine sociale per mantenersi integro e durevole deve innanzitutto proporsi come un sistema che spiega efficacemente la realtà, ne mette in sicurezza i membri e si rende in qualche modo immortale.
Con la caduta delle grandi narrazioni e degli universi simbolici “forti” (delle società teologiche prima, tecno-scientifiche del ‘900) poi, sembra non esserci più un criterio univoco che sia in grado di pacare la schizofrenia dell’uomo contemporaneo che, bombardato costantemente da informazioni e simulacri, costretto ad una vetrinizzazione che annulla la pudicizia, sembra volersi divertire.
Rituali di morte
Nel corso della nostra storia la morte è stata obliata come concetto e come situazione sia dalla coscienza che dalla visione, fin dagli albori della civiltà. I primi ominidi costruivano dei rudimentali sepolcri di pietra proprio per celare, nascondere il corpo del defunto, soprattutto per depotenziare quel monito che imperversava costantemente come una spada di Damocle sulle teste di tutti. Molti antropologi ritengono che le sepolture degli uomini di Neanderthal in tombe scavate con cura e adornate di fiori, siano la testimonianza di una primordiale fede in una specie di aldilà che dimostrerebbe una necessità intrinseca dell’uomo nel ricercare un referente trascendente per la creazione di un senso oggettivo.
Diverse sono le specificità ritualistiche ed i motivi per cui certi comportamenti vengono giustificati al momento del rito funerario, come il depositare degli oggetti personali del defunto nella speranza che gli possano servire “dall’altra parte” o l’agghindare il corpo con amuleti per giustificarne la ricomparsa, ad esempio, durante i sogni. In molte religioni ci sono credenze che riguardano il ritorno alla vita, o comunque l’immortalità dell’anima, che passa per il ricongiungimento al corpo originario o l’inserimento di questa in un altro corpo di un altro essere vivente.
Queste sono tutte strategie cognitive per edulcorare al meglio la propria esistenza, un esercizio egoistico dove si cercano di svolgere le proprie routines nel migliore dei modi, in serenità, ma soprattutto trattasi di atteggiamenti figli di una filosofia di stampo Platonico, l’essenzialismo. Secondo questo approccio bisogna comprendere la vera natura delle cose, la loro essenza, che non è empiricamente rilevabile nel mondo visibile ma appartiene ad una realtà trascendente. L’anima e il corpo sono due cose distinte e separate.
L’immortalità si acquisisce col verbo
Quest’ultimo in particolare è frutto di una imprecisa analogia linguistica. L’uomo è un animale diverso, il cui corpo non è fatto di sola carne, ma è un corpo con un vuoto dentro (Pecchinenda, 2017) che va riempito, animato. L’uomo è un animale che esiste, è fatto di carne che si fa corpo, processo. In altre parole, ciò che diviene importante ora è che, contrariamente a come il senso comune ci ha abituato, l’immortalità non avviene con espedienti relativi alla preservazione del corpo fisico, ma con il linguaggio: non può esistere un corpo di sola carne perché verrebbe meno la struttura di plausibilità che permette l’esistenza.
Essendo dunque composto da carne e da linguaggio è risultata fondamentale per l’uomo l’attività di nomenclatura e condivisione dei significati per dare ordine alle cose. Quest’ordine è poi tranquillamente eludibile in quanto prodotto dall’uomo stesso e non da un’entità esterna che lo propone come dogma apodittico.
L’essere umano è l’unico animale che ha anche la possibilità di sfuggire al proprio corpo. Quasi tutto quello che l’uomo fa è orientato al tentativo di ribellarsi al proprio corpo mortale, che cambia, invecchia e inesorabilmente muore. Secondo Pecchinenda (2017) «siamo animali in fuga […] creiamo mondi, ambienti, protesi tecnologiche alternative derivanti dalla sempre più sofisticata elaborazione del nostro sistema linguistico: a partire dall’invenzione della scrittura, e fino alla creazione dei media digitali, è di questo che si è trattato: una fuga continua dalla morte!».
L’avatar: il verbo nel corpo
Se l’immortalità si acquisisce col verbo e dunque con una parte di un codice comunicativo che implica l’agire, il muoversi verso qualche cosa, l’uomo può essere eternato attraverso la sua introduzione in una struttura linguistico-narrativa digitale, o per meglio dire, la transcodifica del suo corpo nei contesti digitali può implicare una sua nuova esistenza in extenso. L’avatar è uno degli strumenti utili per questa “fuga” nei mondi digitali, una nuova forma di plausibilità, ma soprattutto è una proiezione del nostro corpo fisico oltre che della nostra identità. È una funzione derivata di entrambi, è “l’anima” nascosta che si stacca dai limiti della carne.
La digitalizzazione, ovvero la smaterializzazione della conoscenza e dell’esperienza, rende entrambe più facili e paradossalmente immediate di quelle reali. Il corpo diventa calcolo (l’immagine grafica) e la coscienza si manifesta assieme ad esso, diventando temporaneamente cosa, passando dall’immateriale allo smaterializzato (le parole che scorrono sullo schermo durante la conversazione).
Bibliografia
- Bauman. Z., Il teatro dell’immortalità. Mortalità, immortalità e altre strategie di vita, Bologna, il Mulino, 1995;
- Baudrillard J., Lo scambio Simbolico e la Morte, Milano, Feltrinelli, 2015;
- Berger L. P., Luckmann T, La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il Mulino, 1969;
- Berthoz, La Vicariance. Le cerveau créateur de mondes, Paris, Odile Jacobs, 2009;
- Castells M., la nascita della società in rete, Milano, Università Bocconi, 2000;
- Debray R., Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in occidente, Milano, Il Castoro, 1999;
- Lévy P., Il virtuale, Milano, Raffaello cortina editore, 1997;
- Ortega y G., J., Meditazioni del Chisciotte, Napoli, Guida, 1986;
- Pecchinenda G., Il corpo è una abitazione buia, Exagere, anno II, n. 7-9, 2017;
- Schütz A., Collected Papers, vol. I, Martinus Nijhoff, The Hague, 1962;
- Vattimo G., Introduzione a Heidegger. Bari, Laterza, 1991;

Hr specialist, orientatore e giornalista pubblicista laureato in Sociologia con lode. Redattore capo di Sociologicamente.it.
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