Il Disturbo da stress post traumatico è una condizione di forte sofferenza psicofisica che insorge a seguito di una prolungata esposizione ad eventi traumatici che molti militari, reduci dei teatri operativi, sperimentano.
I primi disagi di questo tipo sono riconducibili all’esperienza della Grande Guerra, un evento incisivo non solo per le sorti geopolitiche del globo ma si tratta di un evento che ha rappresentato un cambiamento socioculturale a tutti gli effetti. Il conto da pagare, però, non è stato ancora saldato: i militari impiegati nella Prima guerra mondiale svilupparono quella che è stata successivamente definita come ‘’febbre da trincea’’, indicante gli strani comportamenti o, meglio, le insolite reazioni che i soldati mostravano a stimoli esterni: palpitazioni, tremori, incubi, perenne stato di ansia e di allerta. E così i militari venivano internati in strutture psichiatriche ed emarginati cercando di occultare le prove di una sofferenza causata, molto spesso, dalla società stessa esplicata nella stigmatizzazione sociale.
Riconoscimento dello stress post traumatico
Solo nei primi anni dell’Ottocento, però, questo disturbo è stato riconosciuto e classificato come tale ma ancora oggi si è restii a parlarne. Nonostante siano state create delle associazioni pronte a fornire supporto ai militari reduci da traumi bellici e alle rispettive famiglie molti di questi hanno ancora timore ad esporsi e a chiedere aiuto. La paura principale è rappresentata dal rischio di essere allontanati da colleghi, di essere sospesi dal servizio ed essere visti come una minaccia per l’equilibrio del sistema e dell’immagine, sempre forte e vigorosa, che il militare è chiamato a rappresentare. Questa aspettativa sociale (e di ruolo), in quanto tale, non va trascurata: le società sono caratterizzate da individui i quali godono di uno specifico status e rispettivi ruoli.
Il ruolo che ognuno di noi ricopre determina delle aspettative che creano una tensione nel momento in cui, per vari motivi e variabili, non si riesce ad adempiere al proprio ‘’dovere sociale’’. Nel caso specifico del militare, quest’ultimo viene messo alla pari di un supereroe, il quale non può permettersi di vivere un momento di crisi nella propria vita.

Ci dimentichiamo però che si tratta comunque di esseri umani, pronti a sacrificare la propria vita per motivi più grandi di loro, certo, ma questa scelta non deve diventare una colpa. Si viene addestrati all’operazione che si andrà a svolgere, si impara a controllarsi e ad essere resilienti, ma tutto ciò non è sinonimo di deumanizzazione, anzi. I coraggiosi che sono pronti a trascorrere tempi prolungati lontano dalla famiglia, in luoghi e in condizioni spesso disagiate stanno facendo, paradossalmente, la cosa più umana che ci sia: salvare vite, perdendo amici, colleghi e perfino sé stessi.
Lo stress in ambito militare
‘’Nel 2015 l’Amministrazione Difesa ha costituito un comitato tecnico scientifico per lo studio dei disturbi mentali nel personale militare che rappresenta il primo organismo interforze di osservazione, monitoraggio e gestione dei disturbi mentali (…) dichiarando l’intento di avviare ‘un’operazione di depatologizzazione, riducendo i processi di stigmatizzazione istituzionale che a volte operano come sfondo nella dissimulazione di un disagio, che così si cronicizza e prende vie più perniciose per l’individuo e per il gruppo a cui appartiene’’’ (Rachele Magro, ‘’DPTS: Lo stress da guerra è un problema anche italiano’’, Il nuovo giornale dei militari)
Rosanna Rivetti