In una società dove viene a mancare una separazione dai contorni ben definiti tra luogo di lavoro e luogo di non lavoro, tempo di lavoro e tempo di non lavoro, l’imperativo è quello di essere sempre pronti alla performance.
Vilém Flusser immaginava l’uomo del futuro come colui che avrebbe potuto fare a meno delle mani perché non avrebbe dovuto maneggiare nulla. L’immagine che echeggiava nella mente del filosofo non si discosta dalla realtà di oggi. Al “cittadino digitale” è sufficiente utilizzare le dita per andare alla ricerca di informazioni immateriali, e per fortuna o sfortuna, con i dispositivi digitali può portare il lavoro sempre con sé.
Bauman (2013) paragonava i lavoratori a delle lumache: così come esse portano con sé la loro casa, allo stesso modo i lavoratori portano sul loro corpo i propri “panottici personali”:
“Sugli impiegati, e sui subalterni di qualsiasi tipo, grava la responsabilità totale e incondizionata di mantenersi in forma e di essere sempre in funzione (lasciare a casa il cellulare o l’iPhone quando si esce a fare una passeggiata, interrompendo così il proprio stato di costante disponibilità verso un superiore, è un caso grave di cattiva condotta”
La performance sui social media: un dominio “invisibile”
I social media impazzano di “post motivazionali”, tutti accomunati dalla stessa idea, quella di lavorare sodo per raggiungere l’ambito successo, dal lavoro alla forma fisica. Colui che desidera perdere peso, potrà facilmente imbattersi nei post dei personal trainer che propinano, senza competenza alcuna, diete restrittive ed estreme. Lo stesso esercizio fisico deve essere continuo ed è efficace solo se è all’insegna della fatica. Non c’è posto per un’attività fisica lenta, pensata e su misura della persona.
La filosofia è quella del “no pain, no gain” e pare avere una grande schiera di seguaci e sostenitori. Sembrerebbe che i social media, alimentino in molti l’ossessione per l’iperattività come unico modus per raggiungere gli obiettivi prefissati. Esercitano il loro invisibile dominio proponendo contenuti che sembrano non ammettere alcuna replica se l’obiettivo è quello di diventare uomini e donne di “successo”. Persuadono gli utenti ad una comunicazione incessante e danno vita a una paura: la “fear of missing out”, cioè la paura di essere “tagliati fuori” da qualcosa di significativo se non si è perennemente connessi.
Vetrinizzazione sociale e morte dell’anonimato
I social media si presentano come una vetrina dove mettere in mostra tutti gli aspetti della vita sociale, favorendo quello che il sociologo Vanni Codeluppi (2019) ha definito “vetrinizzazione sociale”, il modello di comunicazione prevalente oggi. Quello della vetrinizzazione è un fenomeno che viene da lontano, esso infatti affonda le sue radici nel Settecento, quando prima di essere esibiti in vetrina allo scopo di incuriosire i clienti, le merci e i prodotti erano sistemati alla rinfusa e disordinatamente nel retrobottega, inaccessibile al pubblico. Instagram è uno dei social per eccellenza a presentarsi come “vetrina” esibendo quello che prima stava in quello spazio chiamato da Goffman “retroscena”. Il social, infatti, si presenta come una galleria di foto pubblicate dall’utente, dove il privato diventa pubblico e la felicità – reale o simulata che sia – viene continuamente ostentata.
Bauman (2013) parla di morte dell’anonimato. Con questa affermazione sostiene che solo i più ribelli, audaci, combattivi e risoluti resistono alla tentazione di «mandare al massacro il diritto di privacy». Il sociologo inoltre è convinto che non è un’eventuale violazione della privacy a far paura, ma è il non condividere a spaventarci. All’origine di questo impellente desiderio di estrarre e strappare i nostri segreti dai forzieri della privacy condividendoli con i propri follower, vi è il bisogno di stima.
Maslow e l’autostima
Come afferma Maslow: «tutte le persone della nostra società hanno bisogno e desiderio di una valutazione di sé stessi o autostima e di una stima da parte degli altri, che sia stabile, ferma e ordinariamente alta». Per lo psicologo quindi nessuno è esente da questo bisogno, anzi, chi lo è rappresenta una “eccezione patologica”. Quando avremo ottenuto la nostra sana autostima, che è dovuta al rispetto nutrito dagli altri verso di noi, secondo Maslow, e non dalla fama o da un’adulazione ingiustificata, vi è un altro bisogno da realizzare: il bisogno di autorealizzazione. Se non soddisfatto l’individuo sarà scontento. Ecco il perché della continua performance.
La performance: e la violenza della positività
È ormai noto come un uso prolungato ed eccessivo dei social possa rappresentare un pericolo per la salute mentale dei più giovani (e non solo), ed è facile immaginare come una delle ragioni sia da rintracciare nel continuo confronto con gli altri generato dal prendere parte continuamente alla messa in mostra (o messa in scena) della felicità altrui. Una felicità affannosamente spettacolarizzata sui social.
Il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han parla di “violenza della positività”, derivante dall’eccesso di comunicazione e di prestazione. È proprio questo eccesso a caratterizzare la “patologia” della società contemporanea: una società dove tutto viene conteggiato attraverso i like e dove non si può fuggire dall’imperativo a produrre senza sosta. I social media, con le loro infinite potenzialità e vantaggi offerti a noi “cittadini digitali”, sono un palcoscenico, dove, come direbbe Erving Goffman, non abbiamo di fronte soggetti che agiscono ma copioni che vengono accuratamente recitati per raggiungere una buona performance.
Esempi? lo studente brillante, il lavoratore instancabile, il genitore amorevole. Per non essere dei cittadini digitali inconsapevoli bisognerebbe ricordarsi che ogni volta che rendiamo pubblico il nostro privato sui social siamo prigionieri di un panottico digitale. Qui siamo schedati, sorvegliati e controllati, eppure siamo illusi di essere liberi. E forse, per non essere scontenti delle nostre vite bisognerebbe accantonare una positività tossica, quella spesso proposta dai tanti influencer, ricordando che chi si aspetta sempre qualcosa di nuovo, di eccitante, perde di vista ciò che è già lì.
Silvia Rocca
Riferimenti bibliografici
- Z. Bauman, D. Lyon, Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida, Bari, Laterza, 2013
- V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale: il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Torino, Bollati Boringhieri, 2019
- V. Flusser, La cultura dei media, Milano, Mondadori, 2004
- B. Han, Topologia della violenza,Milano, Nottetempo, 2020
- A. Maslow, Motivazione e personalità, Roma, Armando Editore, 2010