La vera ritiratezza è lo stare in mezzo agli altri senza capire di esserci.” Riflessione di un ragazzo hikikomori quattordicenne (Fonte: Hikikomori Italia). Era il 2009 quando, per la prima volta, ho sentito parlare della condizione di Hikikomori, grazie agli studi dell’antropologa Carla Ricci. Hikikomori è un’autoesclusione dalla vita sociale che induce i soggetti a relegarsi nella propria stanza, limitando i contatti con gli altri che avvengono perlopiù tramite Internet. Negli anni Novanta del secolo scorso, lo psichiatra giapponese Saito Tamaki ha coniato il termine Hikikomori che deriva da “hiku“, tirare indietro e “komoru”, ritirarsi (Moretti, 2010).

Come si diventa Hikikomori

Perché si rifiuta il mondo circostante? Diverse ricerche, con specifico riferimento al Giappone, hanno individuato tre cause principali correlate (Ricci, 2009):
1) la pressione esercitata dalla rigida società che discrimina il diverso, seguendo la logica del conformismo e della sorveglianza collettiva dei comportamenti altrui;
2) il sistema scolastico-educativo che, fino dalle scuole elementari, divide nella dicotomia vincenti-perdenti; l’istruzione viene utilizzata come strumento di scalata sociale e, se non si ha la possibilità di frequentare le migliori scuole, si fallisce. Aggiungiamo, altresì, la grande selettività della scuola;
3) il rapporto genitori-figli denotato da mancanza di comunicazione e/o di occasioni di confronto, assenze, iperprotettività, passività, aspettative eccessive di realizzazione. Tale fenomeno si è originato in Giappone, successivamente ha coinvolto altri paesi dell’Asia (Taiwan, Corea del Sud, Hong Kong), Stati Uniti, Europa, Italia compresa. Com’è possibile che esista un parallelismo tra zone così culturalmente distanti come Oriente ed Occidente? Il nodo cruciale risiede nella complessità dei contesti sociali contemporanei unita alla famiglia, o meglio, ad alcune sue peculiarità come assenza del padre, rapporto simbiotico con la madre e dipendenza da Internet (Ricci, 2014).

Il fenomeno in Italia

A testimoniare il crescendo del fenomeno di reclusione volontaria in Italia sono la nascita di associazioni, blog, community online, la produzione di articoli, testi e ricerche in merito. Citiamo “Hikikomori Italia”, Associazione nazionale d’informazione e supporto sul tema dell’isolamento sociale; “Hikikomori Italia Genitori”, al fine di sensibilizzare servizi ed istituzioni; la Cooperativa Sociale Onlus Hikikomori di Milano che offre strategie di supporto alla condizione d’isolamento mediante terapie a domicilio e supporto online (via Skype); Minotauro, l’Istituto di analisi dei codici affettivi di Milano che si occupa di ricerca, formazione, consultazione e psicoterapia. Nel 2009, in Giappone, si stimava circa 1 milione di Hikikomori, prevalentemente giovani maschi (Ricci, 2009), in Italia, le stime si attestano sui 100 mila soggetti (Fonte: Hikikomori Italia), altri studi non ufficiali ridimensionano le cifre a 30-50 mila individui. Ovviamente risulta difficoltoso utilizzare dati certi, vista la particolarità del fenomeno.

Anticonformismo?

Gli Hikikomori, da un lato, fuggono dallo sguardo altrui, dall’altro, trovano il modo di opporsi alla società, autoconfinandosi in una realtà tutta loro. Sottolineiamo il fatto che l’isolamento cancelli totalmente o quasi i contatti reali, ma non quelli della Rete. Se la scelta di autorelegarsi è volontaria e consapevole, è corretto parlare di problematiche relazionali o malattia mentale? Oppure, anche in questo caso, interviene la medicalizzazione della vita? Fuggitivi o coraggiosi, paradossalmente, occupano il loro posto nel mondo da una prospettiva diversa: virtuale (tramite Internet) e nella propria stanza.

Arianna Caccia

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