«Siamo dispiaciuti nell’annunciare la scomparsa dell’attore Rick Dalton, meglio noto per il suo ruolo nella serie tv Bounty Law e nella trilogia The Fireman. Rick è spirato pacificamente nella sua casa delle Hawaii e lascia la moglie Francesca». Queste le parole che il regista Quentin Tarantino scrive sulla pagina Twitter del podcast che cura insieme a un suo collega sceneggiatore.

Rick Dalton: il caso

Per il mondo cinefilo, una notizia certamente eclatante, ma lo è ancor più per quello meno avvezzo alla cinematografia, non foss’altro per il fatto che l’attore Rick Dalton, morto all’età di 90 anni, sia un personaggio del lungometraggio C’era una volta a…Hollywood (2019) che porta la firma registica dello stesso Tarantino.

Se alcune testate nei loro titoli sulla notizia si dotano di punteggiatura in grado di rivelare l’elemento immaginifico della morte dell’attore (il webmagazine cinematografico Movieplayer riporta: Quentin Tarantino annuncia la “morte” di Rick Dalton di C’era una volta a… Hollywood, in cui il virgolettato rende giustizia all’evento fittizio), altre la riportano rispettando il frame giornalistico che si adotta ogni qualvolta si assista alla reale scomparsa di un celebre personaggio. Questa versione di rendicontazione dei fatti, indurrebbe alla tentazione di considerarla come una vera e propria fake news, per la quale la morte di un uomo più che surreale, risulterebbe effettivamente irreale. Tuttavia, Ex nihilo hihil fit, «Nulla nasce dal nulla», come notava Lucrezio citando il motto di Epicuro: niente si genera dal non esistente, ma di fatto Rick Dalton esiste e, seppur nell’immaginario, è stato generato all’interno di questo, e come tale può morire all’interno di questo. 

Tarantino al servizio della sociologia: il cinema come proiezione

Se, infatti, si guarda il fenomeno più in profondità e sotto una lente sociologica, il clamore indotto da quest’ultima versione giornalistica, rispetto alla ‘fedeltà’ della prima, non sussisterebbe, poiché sussiste, al contrario, un forte incontro tra l’immaginario e il reale, catalizzato dal medium cinematografico. Basti pensare al primissimo esperimento filmico ad opera dei fratelli Lumière nel 1896, L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat, di cui si ricorda l’aneddoto per il quale alla sua prima visione presso uno dei primi cinematografi, gli spettatori sobbalzarono alla visione del passaggio di un treno in movimento in quanto profondamente realistico.

Senz’altro un primo esempio di ‘incontro’ tra realtà e immagine filmica, in cui non si prende solo visione della scena, ma la si esperisce. È evidente come un ruolo essenziale in tal caso sia assunto dalla percezione sensoriale, senza la quale tale connubio non avrebbe avuto facoltà d’esistere, e con esso un’esperienza reale, ma è pur vero che la percezione del mondo è parte costitutiva dello stesso.[1]


[1] Bourdieau a tal proposito considerava la necessità di una sociologia che includesse una sociologia delle percezioni sociali, nonché una sociologia delle costruzioni del mondo che pure contribuiscono alla costruzione stessa del mondo (1990).


Rick Dalton e Morin

Parallelamente, aver esperito sullo schermo del personaggio di Rick Dalton, non esime lo spettatore dal viverne la sua morte, ma in questo caso si è investiti anche da un processo di forte proiezione e identificazione tipico del funzionamento mediatico della modernità, che si allontana dalla mera percezione sensoriale per accostarsi sempre più a una ‘identitaria’. Kearney (1988) ritiene, infatti, che con l’indole antropocentrica della modernità, l’immaginario si emancipa dalla percezione sensoriale assumendo sempre maggiore autonomia, ascrivendosi in un processo di continue proiezioni e sublimazioni autoriflessive (Binelli, 2019).

Un’idea sulla stessa linea d’onda di Morin (1962), il quale, partendo proprio dal mezzo cinematografico, riconosce come i suoi prodotti inneschino un meccanismo di forte proiezione dello spettatore e immedesimazione verso ciò a cui assiste. Un passaggio sicuramente accelerato dal divismo del cinema hollywoodiano anni ’50, in cui la ‘star’ assurge a idealtipo per la vita dello spettatore, che lo accompagna dal film di cui è protagonista alla vita extrafilmica, percorrendone (e inseguendone) anche la vita privata, costruttivamente restituita, ma spontaneamente percepita.

Il passaggio tra vita e immaginario

La stessa pellicola in questione di Tarantino dipinge bene questo ‘star system’, seppur ambientando il film al tracollo di questo meccanismo, all’alba degli anni ’70 in cui una nuova stagione cinematografica americana (ed eminentemente europea) albeggiava. Ciò che però è comunque rimasto fino ad oggi, con una certa trasposizione anche su altri fronti mediatici, è, appunto, questo processo di ‘avvicinamento’ e proiezione verso i protagonisti dei prodotti filmici, di cui si fa complice questo ambivalente aspetto di costruzione e spontaneità della scena (e retroscena).[2]

Il cinema, in questo modo, rende possibile il passaggio dall’immaginario della nostra vita, alla vita del nostro immaginario. Lo spettatore prende parte al film, vi si proietta, intrattiene relazioni con i suoi personaggi perché essi restituiscono una certa immagine della vita che egli fa propria. In tal senso il pubblico fa proprio il personaggio di Rick Dalton, vi interagisce, ne apprende il personaggio e con esso la sua morte, cosicché i margini tra immaginario e reale si assottiglino, quasi combaciando.

Castells e i simulacri

Secondo Castells (2001) siamo, infatti, di fronte a un sistema in cui la realtà stessa è pienamente catturata, completamente immersa in un ambiente virtuale di immagini in cui le apparenze non sono solo sullo schermo attraverso il quale si comunica l’esperienza, ma diventano esperienza (Susca, 2022).

Ne deriva che lo spettatore partecipa alla morte di Dalton che vive nella sua entità di simulacro inteso nel senso deleuziano di copia differenziale senza originale: simula, ma senza alcun elemento originale. È una copia differenziale che rinvia a un’altra copia differenziale che rinvia a qualcosa che non esiste in origine (Bertetto, 2007), ma, come accennato, esiste nell’immaginario combaciante con l’immagine, cosicché lo spettatore ne faccia esperienza, assistendo, così, alla morte sì, simulata, ma anche esperita.


[2] Senza alcuna propensione liquidatoria del format, ma cogliendone la sua esperienza mediale, allontanandosi dal cinema per passare alla tv, il format del reality coglie pienamente questa doppia direzione in cui la scena è costruita spontaneamente, i partecipanti si mostrano per ciò che sono nella loro più esasperata genuinità. L’imperativo prestazionale si coniuga così a quello più privato e intimo, il quale trova rifugio sicuro nell’immaginario dello spettatore che vi si proietta, in quanto condivide con esso la stessa essenza umana.


La sociologia al servizio di Tarantino: l’informazione umanizzata

Complice di questo processo, ciò che Morin enuncia nell’opera di cui sopra, dedicandovi un capitolo dal titolo metaforico I vasi comunicanti: il personaggio cinematografico è divizzato e simula il reale, l’informazione mediatica viene sempre più romanzata. Ora, dare la notizia della morte di un attore, peraltro vivente in una dimensione immaginifica, coadiuva questa svolta romanzata dell’informazione, che non si limita alla cronaca e alla rendicontazione, ma mette nero su bianco (o pixel su schermo, oggi) anche le vicissitudini legate a chi abita il mondo dello spettacolo.

In altre parole, quelle di Morin, «Mentre l’immaginario confluisce nel realismo […] l’informazione tende a strutturare l’avvenimento in modo romanzesco o teatrale» (Morin op. cit.). Risulta più semplice, così, comprendere l’immagine dei vasi comunicanti utilizzata dal sociologo per spiegare questo processo: c’è un continuo confluire di dimensioni di spontaneità e costruzione, di realtà ed immaginario, ibridandole.

Rick Dalton e Goffman

Spiegandola con Goffman (che poneva allegoricamente la scena come il momento ‘performativo’ dell’attore sociale, secondo dei frame ben precisi, e il retroscena come il momento di massima spontaneità dello stesso, in cui può essere sé stesso spogliandosi della maschera sociale da seguire per stare al mondo) la scena invade il retroscena, con una costruzione ragionata e archetipizzata dell’attore secondo modelli divistici che lo portano ad essere socialmente riconosciuto dallo spettatore. Al tempo stesso il retroscena permea tutta la scena, dotando l’attore di un elemento di forte umanizzazione che consente allo spettatore di ritrovarvisi.

Come lo spettacolo porta l’extrafilmico (il retroscena) nel profilmico (la scena), l’informazione si serve di questo interscambio (tanto da essere sempre più presenti a una forma di infotainment) e dota la notizia di elementi fortemente umanizzanti pur secondo i frame giornalistici ormai collaudati. È qui che si ritorna al punto di partenza: la notizia della morte di un personaggio costruito si fa portavoce di questo doppio processo, a maggior ragione se non intellegibile, smentendo una prima ipotesi di fake news.

Cultura della virtualità reale

È la ‘costruzione spontanea’ per antonomasia, ma non per questo, non ascrivibile all’immaginario sociale a cui invece appartiene a pieno titolo, abitandolo, in quanto condivide con il suo recettore lo stesso ciclo di vita e il suo retroscena. Così, l’opera di Tarantino, con la morte del suo protagonista giunge a compimento, sebbene al di fuori del profilmico, ma facendosi continuazione dello stesso, creando una congiuntura tra scena e retroscena, ingrandendo le fila dell’immaginario.

Si avvalora, dunque, la teoria di Castells (1996) secondo la quale siamo nel pieno di una cultura della virtualità reale, ovvero di un paradigma in cui l’immaginario, le sue forme e i suoi linguaggi, penetrano nel cuore del mondo e lo fanno battere a loro ritmo (op.cit). La grande scritta sul New Beverly Cinema [Fig.2] di proprietà di Quentin Tarantino in memoria di Rick Dalton lo stesso giorno che il regista ne aveva dato l’annuncio? La prova del nove.

Emanuela Miccoli

Bibliografia

  • Bertetto, P. (2007), Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Studi Bompiani, Roma.
  • Binelli, A. (2019). Immagini, immaginazione e immaginario. Richard Kearney e la veglia poco funebre del postmodernismo. Im@go rivista di immaginario sociologico.
  • Bourdieau, P. (1990). In Other Words. Essay towards a Reflexive Sociology. Cambridge: Polity Press.
  • Castells, M. (1996). L’Ère de l’information. La Société en réseaux, Vol.1.
  • Castells, M. (2001). La galaxie Internet. Parigi: Fayard.
  • Fassari L. (2017) Oltre il realitysmo – Una mappa dell’esperienza mediale contemporanea, Sociologia e ricerca sociale, Franco Angeli.
  • Goffman E. (1959), La vita quotidiana come rappresentazione, New York: Doubleday & Company Inc.
  • Kearney, R. (1988). The Wake of Imagination. Toward a Postmodern Culture. Minneapolis: University of Minnesota Press.
  • Morin, E. (1962). Lo spirito del tempo. Meltemi Culture visuali. Susca, V. (2022). Habiter l’imaginaire. Sociologie de la culture numérique. Im@go rivista di immaginario sociale.
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