Il passaggio dalla società moderna a quella post-moderna è stato caratterizzato da una dedizione forsennata alla crescita del benessere e della ricchezza individuale; la proprietà privata ha preso sempre più piede e la condivisione di beni, strumenti e conoscenza ha lasciato spazio a forme di individualismo, creando un gigantesco solco tra chi possiede molto e chi invece nulla. La crisi economica che ha colpito le principali economie mondiali, però, ha portato ad una rivalutazione dei principi economici fin ora utilizzati ed ha aperto la porta a nuovi approcci. I sistemi di consumo condiviso sono un esempio: car sharing, bike sharing, coworking e cohousing che possiamo riassumere col termine sharing economy.
Che cos’è la sharing economy?
Questo modello economico si basa sull’idea di utilizzare beni e servizi senza esserne i proprietari e di condividerli con altri consumatori per ammortizzare i costi. Faremmo un grosso errore, però, se pensassimo che questa nuova forma di consumo sia un fenomeno provvisorio e passeggero, usata solo per superare questo momento di crisi. Dietro all’idea della sharing economy, infatti, si nasconde la voglia delle persone di ritrovare valori persi come la collaborazione, la condivisione e la sostenibilità e il desiderio di esperire la pratica del consumo in modo più appagante attribuendogli significati che vanno al di là del possesso tout court.
Durkheim il precursore

Alcuni dei più grandi sociologi e studiosi si erano resi conto, molto prima, dell’importanza di preservare questi valori tipici delle società tradizionali. Émile Durkheim è il sociologo che più di tutti affronta questa tematica. Nella sua opera “La divisione del lavoro sociale” ci racconta di un’umanità che si è evoluta da piccole comunità a società complesse; ciò che differenzia la prima dalla seconda è un cambiamento nella natura della coesione sociale: nelle società tradizionali, la religione e la cultura creavano una forte coscienza collettiva che garantiva la solidarietà; nella società moderna invece, la divisione del lavoro e la sua specializzazione hanno spostato l’attenzione dalla comunità all’individuo. Le società complesse possono funzionare, sostiene il sociologo, solo se contengono al proprio interno alcuni elementi caratteristici della società tradizionale. La sua tesi sembra confermata: gli eventi storici ed economici degli ultimi anni ci hanno trasformato, infatti, in individui sempre più bisognosi del prossimo. La crisi economica ha fatto emergere, paradossalmente, risorse e potenzialità condivise che ci permettono di far fronte alle problematiche che essa ha portato. Ci siamo accorti, forse, che l’unico modo per “sopravvivere” è quello di trovare dei modi alternativi di consumo.
Coworking, il lavoro del futuro
Oltre all’esigenza urgente di risparmio economico, è altrettanto forte quella di abbattere i muri dell’indifferenza e dell’individualismo, cause, nel tempo, di un generale disorientamento sociale. I grandi cambiamenti come la globalizzazione ci hanno fatto sentire sempre più cittadini del mondo e sempre meno radicati in un luogo che ci possa dare sicurezza e un senso di appartenenza. Questa sensazione di smarrimento ci induce a fare qualcosa non solo per noi ma anche per gli altri e con gli altri. Fa parte di questo nuovo paradigma sociale, ad esempio, il coworking che significa letteralmente lavoro condiviso; è un nuovo stile lavorativo che presuppone la condivisione di un ambiente di lavoro e di risorse tra professionisti che fanno lavori differenti e che interagendo mettono a disposizione ciascuno le proprie risorse. Molti liberi professionisti scelgono questo modo di lavorare perché risulta più conveniente rispetto al classico ufficio. Il coworking, tra altre cose, permette di entrare in contatto con numerose realtà e incontrare persone stimolanti. Ma non solo; esso facilita gli incontri che vanno oltre il semplice rapporto di lavoro; stringere legami e conoscere nuove persone è molto difficile se si lavora in ufficio, ancor di più in una grande città o metropoli dove dominano la fretta e la frenesia quotidiana.
La sharing economy in Italia
Vi sono anche realtà meno impegnative e più circostanziali, come la scelta di condividere un viaggio con una persona sconosciuta diretta verso la stessa meta. La piattaforma di car pooling più utilizzata al mondo è BlaBlaCar con oltre 25 milioni di membri e utilizzata in 22 paesi. Anche l’Italia va pazza per la sharing economy, contrariamente a quanto potremmo aspettarci per via della tendenza culturale di noi abitanti a posporre le esigenze familiari a quelle della collettività. A dimostrarlo sono i dati presentati allo Sharitaly 2016: durante quell’anno il numero delle piattaforme italiane di share economy sono arrivate a 206 e secondo una ricerca di mercato di TNS, nonostante la prima motivazione del loro utilizzo sia il risparmio, il 32% lo considera un modo per dare un’opportunità economica agli altri e per i rimanenti è motivo di sostenibilità e contrasto al consumismo. Non sarà forse che anche noi, colpiti fortemente dalla crisi, ci siamo accorti dell’importanza della condivisione e della solidarietà collettiva? Il settore dell’home sharing con 3.6 milioni di turisti ospitati in un anno e 83mila host in tutta la penisola sembra confermalo.
Giulia Borsetto