L’attenzione riservata a ciò che quotidianamente consumiamo, la meticolosità con la quale si seguono i più disparati regimi di dieta, ricordano quasi quelle proprie di una pratica religiosa. Spesso l’ottenimento di una forma fisica adeguata diventa una sorta di dipendenza dall’ago della bilancia, nonché un’ossessione per tutto ciò che è accompagnato dal suffisso “bio” e dichiara guerra all’artificiosità degli additivi. Ma quanti dogmi alimentari ogni giorno accettiamo più o meno consapevolmente? La certificazione e l’etichettamento sono un’effettiva garanzia? Come e perché la disponibilità di capitale influisce sulla qualità del nostro stile alimentare? Alla luce delle moderne dinamiche vale la pena provare ad interrogarsi su tutti questi aspetti.
Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio?
La sofisticazione ha trasformato i prodotti alimentari in oggetti estranei alla nostra conoscenza. Affidarsi all’etichetta presuppone un alto grado di fiducia verso l’istituzione e gli organi che la rilasciano: a pensarci bene, senza postulare la limpidezza di tutte le informazioni contenute tra righe che accompagnano le confezioni, non riusciremmo a consumare tutto ciò che è sul mercato con relativa tranquillità. Paradossalmente, quello fiduciario è una sorta di dogma, come accennato, perché non si ha effettiva certezza di quanto riportato (le contraffazioni sono dietro l’angolo) e per una sorta di tacito accordo sociale si attribuisce a qualcuno la responsabilità di vagliare la qualità dei cibi facendo da garante per un’intera classe di consumatori che di quel prodotto sa poco o forse nulla. Se si pensa alla globalizzazione del mercato alimentare che ha portato sulle nostre tavole una miscellanea di colori e sapori internazionali o alla prospettiva, non poi così remota, della carne in vitro, di chiaro beneficio produttivo-ambientale ma con sgranati confini etici, ci si accorge di essere circondati da UFO (Unidentified Food Object). Oggetti misteriosi che non sarebbero poi tanto diversi dai loro omonimi celesti, senza quella buona dose di credibilità attribuita, con scarse alternative e pochi elementi utili alla valutazione, a chi decide cosa dobbiamo e non dobbiamo sapere riguardo quello che finisce quotidianamente nei nostri piatti. Sarà per questo che abbiamo sviluppato la tendenza a considerare il cibo materiale artistico da esporre come un prodotto di design sotto l’hastag #foodporn? Sarà questa aurea di inconoscibilità che ricollega il suo godimento ad una dimensione primariamente estetica piuttosto che esclusivamente culinaria?
Niente marchio doc per la nonna
Bisogna avere un occhio al portafoglio anche quando si mangia. Di sicuro la grande distribuzione ha permesso a tutti di soddisfare le necessità quotidiane, dato che oggi, nel mondo, si produce molto più del fabbisogno effettivo. Tuttavia quando si parla di alimentazione di qualità è richiesta una disponibilità di capitale che la rende un ambito piuttosto elitario. Il riferimento non è solo alla cucina di chef stellati, il cui costo ingloba forse il prestigio e le lussuose locations, ancor più della qualità, ma anche e soprattutto agli ormai sdoganatissimi prodotti a km zero, biologici, macrobiotici che divengono ricercati per la loro lavorazione, la manodopera richiesta e talvolta per la diffusione sulla scia di una moda che investe persino il mercato alimentare. Risulta difficile credere che la marmellata della nonna, frutto di prodotti della terra e di una maestria senza pari, non possa risultare adeguata ai parametri di certificazione, sebbene probabilmente più sana e verace di tanti intrugli biologici. La dura legge di mercato la taglia invece fuori, ponendo limiti riguardo le condizioni igienico-sanitarie, la filiera produttiva, il packaging che la declassano rispetto agli altri prodotti, anche artigianali, rispondenti a quanto previsto dalle disposizioni di legge. Ma siamo proprio certi che la qualità possa interessare ai burocrati più che ad una amorevole nonnina? Ai sopravvissuti dei pranzi domenicali l’ardua sentenza.
Evoluzione dei modelli di consumo
Il comportamento alimentare ha oggi perso ogni riferimento all’appartenenza sociale e familiare, orientandosi a seconda dei gusti e dell’ideologia. Da pratica socializzante, consumare cibo ha assunto i tratti di un fenomeno quasi esterno alla sfera intima e domestica, nonostante il cibo sia il bene di consumo che, insieme al medicamento, penetra nel corpo producendo effetti irreversibili. Il distacco dal mondo rurale a beneficio dell’industrializzazione, configura il rapporto uomo/cibo come una relazione funzionale e non più affettiva, tra chi prepara e chi consuma. In questo quadro visibilmente spersonalizzato e spersonalizzante, il contatto con il cibo si muove lungo un continuum di opposti che generano diversi tipi di ansia in relazione al consumo. In un’opposizione piacere/dispiacere, il cibo è fonte di sazietà, gusto o disgusto e nausea, generando preoccupazione rispetto al livello della soddisfazione sensoriale. Nella prospettiva della sicurezza, essenziali sono i contrasti salute/malattia e vita/morte che implicano da un lato la consapevolezza che il cibo è necessario per la sopravvivenza e conferisce robustezza ed energia, dall’altro può provocare l’insorgere di malattie e solleva interrogativi riguardo l’eticità di privare della vita un animale per preservare la propria.
Alla ricerca di qualità
Sulla base di queste sollecitazioni, diviene fondamentale comprendere in che direzione si muova la percezione del consumatore quando deve valutare la qualità di un prodotto per soddisfare il suo bisogno di sicurezza. Le quattro direttrici relative alla percezione di qualità sono:
1. Vivere sano: il prodotto vincente è quello che coniuga le sue funzioni a una propensione da parte delle aziende di comunicarne in modo tangibile ed accattivante le proprietà nutritive.
2. Ricerca di varietà: il consumatore vuole scoprire prodotti nuovi non solo per sperimentare gusti diversi ma per ampliare il ventaglio di alternative alimentari utili a un consumo sempre più esternalizzato, non domestico.
3. Praticità nella preparazione del pasto: l’odierno dinamismo richiede un’ottimizzazione nei tempi di preparazione che spesso non lascia spazio alla dimensione sensoriale, privilegiando quella funzionale.
4. Sympathetic food production: il consumatore moderno bada maggiormente al significato di ciò che sta mangiando: cultura biologica, veganismo e simili, oggi rappresentano veri e propri modelli culturali e non più tendenze radical chic, sebbene ancora controversi.
Il quadro prospettato lascia ancora numerosi punti oscuri ma consente di interrogarsi su quanto sia mutato il rapporto con il cibo dal punto di vista teorico e pratico, in un approccio collettivo ed individuale che mette in discussione i punti cardine della tradizione alimentare, particolarmente cara al nostro Paese ma fondamentalmente per tutti.
Roberta Cricelli

Silenziosa osservatrice dalla penna loquace. Convinta che per raccontare il mondo con spiccata vena poetica occorra conoscerne le dinamiche interne. Ama la sua Calabria, terra di contraddittoria bellezza.