Quando si parla di devianza ci si riferisce, comunemente, ad un insieme di comportamenti e/o azioni (verbali, fisiche e relazionali) di una persona o di un gruppo di individui che si discostano dal fare e dire comune, fino ai casi più gravi che riguardano l’infrazione di norme e valori ben radicati in una collettività che, in un lasso di tempo e spazio ben delineato, risultato essere dominanti e accettati. La sociologia della devianza si occupa proprio di questa tipologia di fatto sociale: comportamenti e azioni devianti, di solito, incorrono in sanzioni, disapprovazione, marginalizzazione e condanne. In base alle sfumature che si vogliono apportare al termine, la devianza come concetto ha diverse accezioni, significati e valenze; spesso, è associata a comportamenti colpevoli.
Bisogna sottolineare, però, che un delinquente è, di solito, un individuo con comportamenti e caratteristiche devianti, ma non per questo chi è deviante è automaticamente un criminale. Stando a questa specificazione, bisogna porre attenzione alle parole e al significato che si attribuisce loro, soprattutto nell’ambito della devianza il cui rischio è incorrere nello stigma e nelle sue conseguenze negative (Goffman, 1963).
Il concetto di devianza
Per devianza si intende,
Quell'azione o comportamento, di un individuo o di un gruppo, che la maggioranza dei membri della collettività all’interno della quale si sviluppa giudica violi le norme condivise. Più in particolare, un comportamento può essere definito deviante laddove violi determinate aspettative connesse a uno specifico riferimento normativo, venendo quindi identificato come deviante da una collettività specifica, attraverso una valutazione che consideri la situazione circoscritta in cui si è sviluppato e i ruoli sociali degli agenti, tenendo parallelamente conto della sua intensità e della sua direzione. Il concetto di devianza deve essere distinto dal concetto di illegalità, poiché non sempre le norme sociali esistenti all’interno di uno specifico contesto sociale rappresentano anche precetti dell’ordinamento giuridico vigente al suo interno. (Enciclopedia Treccani)
I fenomeni che ad oggi rientrano nel concetto di “devianza” esistevano già prima che vi cominciassero studi su di essa, con la differenza che venivano etichettati con termini quali “peccato, “male” e “immoralità”, soprattutto perché legati (e opposti) alla sfera religiosa.
La nascita del deviante per la sociologia della devianza
La nascita della categoria “deviante” si fa risalire alla fine del 18° secolo quando vi sono state tre trasformazioni radicali: la prima ha previsto l’attribuzione del termine “deviante” a tutti i comportamenti criminali, con la conseguenza di portare ad un rafforzamento del sistema legale centralizzato dello Stato moderno; la seconda ha visto l’inasprirsi delle misure di controllo di alcune istituzioni specializzate chiuse quali ospedali psichiatrici, prigioni, ecc.; la terza che ha permesso di classificare in modo più preciso tutto ciò che potesse essere etichettato come deviante.
Dopo queste tre trasformazioni, infatti, ufficialmente si interpretano le forme di devianza secondo uno schema legale/giuridico, uno schema assistenziale e uno schema salute/malattia. Nonostante queste rivoluzioni che hanno permesso di sottolineare come questi concetti di devianza appartengono a dei campi specifici e per questo devono essere trattati da professionisti e specialisti del settore, si è continuato per molto tempo ad utilizzare il termine “devianza” anche per alcune categorie legate alla sfera della morale. Quando si parla di devianza, Matza (1964; 1969) individua tre contrapposizioni ricorrenti che la contraddistinguono da altri fenomeni:
- la correzione, ossia l’interesse nei fenomeni devianti al fine di eliminarli, e la comprensione, l’interesse a riconoscerli e capire i meccanismi e le caratteristiche che li contraddistinguono;
- la distinzione tra “patologia”, declinando la devianza come variante inaccettabile e indesiderabile nella normalità, e “diversità” che prevede la devianza come una variante tollerabile ma, per diversi e molteplici motivi, è considerata negativamente;
- la distinzione tra “semplicità” dove la devianza è un fatto ovvio poiché si allontana dalla normalità, e “complessità” ove la devianza è un fenomeno difficile da delineare e definire a causa dei suoi rapporti difficili con la normalità con cui spesso si sovrappone.
Agli inizi del 20esimo secolo, fu E. Durkheim (1897), uno dei fondatori della sociologia classica, il primo ad interrogarsi su alcuni argomenti legati alla devianza (la sua funzionalità, la relatività delle regole, la natura della regolamentazione morale), creando un nuovo filone sociologico specifico per la materia: la sociologia della devianza.
Gli autori della sociologia della devianza: la scuola di Chicago
Per la prima generazione di sociologi, nello specifico americani e inglesi, la devianza è stata affrontata come una questione fondamentale e di vitale importanza. Il crimine, la delinquenza e il “vizio” erano fenomeni etichettati come minacce alla moralità dominante e all’ordine sociale vigente. La devianza si presentava come una falla (un errore) nel funzionamento dei sistemi di socializzazione primari: la famiglia, la scuola e la moralità.
Gli scienziati sociali dell’epoca volevano rendere più efficienti e “progressiste” le istituzioni ufficialmente deputate al controllo sociale; infatti, le loro teorie si basavano sul paradigma della patologia e della semplicità. La Scuola di Chicago (Park, Burgess, McKenzie, etc.) degli anni Venti e Trenta ha ereditato alcuni concetti di questa ideologia, differenziandosi però, nell’approccio alla devianza: più scienza e meno morale. La Scuola di Chicago si è dedicata allo studio delle gang giovanili, della criminalità organizzata, della prostituzione, del vagabondaggio e di tutto ciò che fosse etichettato “diverso” e fuorviante dalla normalità.
Questo interesse verso la devianza come fenomeno semplice e patologico dimostrò come la delinquenza e la diversità facessero parte, naturalmente (e paradossalmente) del “crescere in città”: erano perfettamente integrate nell’apparato politico e sociale. La città, in termini di ecologia, permette di creare “ambienti naturali” favorevoli alla costituzione di rapporti/comportamenti/interazioni devianti. I difetti della Scuola di Chicago sono quello di essersi concentrata su micromodelli piuttosto che sulla struttura sociale macro ed il fatto di basarsi su una nozione di disorganizzazione sociale affetta da circolarità logica. Nonostante queste imperfezioni, si riconosce alla Scuola di Chicago il merito di aver fornito un contributo importante alla sociologia della devianza: una metodologia focalizzata sulla descrizione puntuale e fedele degli universi devianti (stili, culture, carriere) inseriti nel contesto della vita urbana.
Gli autori della sociologia della devianza: i funzionalisti
Proseguendo con gli anni Quaranta, questi sono stati caratterizzati dall’instaurazione della corrente c.d. “funzionalismo”. Questa corrente affermava di interessarsi ai macromodelli dell’ordine sociale e per questo il fenomeno deviante era visto come un semplice discostamento dalla normalità generale, ad esempio per il sociologo americano Parsons (1951) la devianza era uno scostamento dagli standard normativi. Nonostante la dichiarata mancanza di interesse nei fenomeni devianti, i funzionalisti diedero importanti contributi alla devianza. Tra i loro numerosi contributi si ricordano:
- Il fatto per cui la devianza non sia un fenomeno prettamente negativo, anzi, essa svolge un ruolo fondamentale e positivo nel mantenimento dell’ordine sociale. Questo concetto si basa sulla teoria di Durkheim, il quale affermava che una società senza devianza non potesse esistere. Per il sociologo francese il crimine era un fatto sociale a tutti gli effetti e in quanto tale svolgeva funzioni sociali ben precise. Le funzioni “positive” della devianza sono: rafforzare la coscienza collettiva, mantenere la stabilità sociale, rafforzare la solidarietà e chiarire i confini della morale.
- Il concetto di “anomia” (anch’essa ha le sue radici nel pensiero di Durkheim) derivato dalla “anormale divisione del lavoro” che caratterizzava (e caratterizza) la società umana. Il termine durkheimiano “anomia” si legava alla dissociazione della società moderna, dell’individualità dalla coscienza collettiva, cioè il fatto per cui i desideri individuali non erano saziati e non erano abbastanza regolati e controllati. L’anomia era lo stato di mancanza di norme prodotto dalla rapida fuoriuscita dalla società tradizionale ed esacerbato dalle crisi sociali ed economiche. Un esempio è il suicidio trattato proprio da Durkheim (1897). Lo sviluppo del termine durkheimiano “anomia” lo propose R.K. Merton (1938) che lo declinò nelle società democratiche moderne. Per Merton l’anomia non si legava al concetto di assenza di norme, ma la conseguenza di una differenza strutturale tra fini e mezzi. Essa spiegava la tensione insanabile generata dalla società che fornisce modelli di successo, sogni che bisogna assolutamente raggiungere (ad esempio il sogno americano) ma che al contempo non offre gli stessi mezzi per il suo raggiungimento a tutti. Le conseguenze a questo fenomeno sono il conformismo (accettazione dei mezzi legittimi e culturalmente prescritti, quali ad esempio l’impegno individuale) e l’innovazione che usa, però, mezzi illegittimi (es. furto, frode e violenza), la rinuncia (suicidio, malattia mentale e tossicomania) che prevede il rifiuto sia dei fini prescritti sia dei mezzi convenzionali.
L’unione delle due scuole di pensiero
Verso metà degli anni Sessanta, prima negli Stati Uniti e poi in Gran Bretagna e in Europa Occidentale, si afferma una nuova concezione della devianza generata dall’unione di alcuni concetti delle teorie precedenti. Teoricamente, gli spunti principali vennero dalla Scuola di Chicago (il fatto per cui la devianza fosse un comportamento appreso e l’utilizzo di metodi etnografici) e dal funzionalismo (la relazione paradossale tra devianza e controllo) e da altre teorie quali l’interazionismo simbolico, la fenomenologia e la teoria del conflitto.
Da questa nuova teoria la sociologia ha originato una concezione relativistica della devianza piuttosto che effettivamente data; espressione di diversità piuttosto che di patologia e di complessità piuttosto che di semplicità. La tesi fondamentale dei nuovi teorici di sociologia della devianza era che la variabile cruciale nello studio del fenomeno in questione fosse non l’attore (il suo patrimonio genetico, la sua personalità, il suo status sociale, ecc.) e nemmeno le sue azioni (la sua presunta pericolosità), piuttosto la pubblica opinione.
Cosa propongono le nuove teorie sulla sociologia della devianza
Le teorie c.d. “positiviste” convenzionali studiano il comportamento umano, di cui cercano di individuare le cause delimitando un qualche modello deterministico (biologico, psicologico o sociale). Le nuove teorie non solo hanno messo in discussione il determinismo con l’affermazione di un modello più flessibile dell’azione umana, ma hanno evitato qualsiasi tipo di spiegazione causale; inoltre, hanno integrato (a volte sostituito) lo studio del comportamento con quello della reazione sociale. La reazione sociale si esplica a tre livelli a cui si legano tre corrispettivi problemi:
- il primo è la “definizione” che ha come suo problema da risolvere la genesi della categoria deviante e le sue caratteristiche distintive;
- la “classificazione” che pone il problema di come incasellare i singoli casi che appartengono a ciò che viene definito deviante;
- gli effetti, ossia quali conseguenze sociali vengono generate dagli attori definiti devianti.
Di conseguenza, anche le possibili risposte ai problemi presentati sono tre: la prima è strutturale e storica, la seconda è di tipo organizzativo e la terza interazionale e psicologica. Ad esempio, un’azione criminale potrebbe essere studiata a livello storico (dando spiegazioni del contesto storico-politico), in termini organizzativi (legati agli interessi burocratici che hanno portato le istituzioni a vietare determinati comportamenti), o politico (sottolineando le figure di potere e le loro funzioni) o psicologico (caratteristiche appartenenti al soggetto, mai svincolate dalla vita personale e relazionale del soggetto).
Ad oggi, il modello vigente in materia di devianza è quello delle teorie degli anni Sessanta che hanno permesso lo sviluppo di correnti stimolanti ed interessanti affini, quali la teoria critica del controllo sociale, il costruzionismo, il femminismo e il pensiero di M. Foucault (Enciclopedia Italiana, 1995).
La prevenzione della devianza
La devianza si può prevenire, ma non evitare del tutto. Quando si parla di prevenzione, si riconoscono tre livelli della stessa: primaria, secondaria e terziaria. La prevenzione primaria è rivolta a tutta la popolazione, le sue finalità sono volte a ridurre le condizioni dannose conosciute come fattori di rischio di devianza ed è volta a prevenire l’insorgenza di “malattia”, problematiche, disagio. La prevenzione secondaria è diretta soprattutto ai soggetti definiti “a rischio” e si attua uno screening e una conseguente diagnosi con un conseguente intervento. La prevenzione terziaria si attua ai soggetti che presentano già problematiche corroborate. È volta a prevenire recidive e peggioramenti e si basa sulla riabilitazione dei soggetti problematici nella società e nel ricercare una limitazione degli eventuali danni personali e collettivi in cui si può incorrere.
L’infanzia, ma ancor di più l’adolescenza, è una fase importantissima (e critica) per lo sviluppo personale. Il minore, in quanto singolo e appartenente a un gruppo, deve essere in grado di incontrare un sistema in grado di decifrare i suoi bisogni, appagare le sue necessità, accogliere le sue richieste di aiuto e saper proporre dei progetti evolutivi atti a permettergli una sana crescita nel rispetto delle proprie tempistiche fisiologiche.
Orientamento al futuro
Tra gli obiettivi da raggiungere, vi è l’orientamento al futuro che, unito alla dimensione progettuale, sono fattori costitutivi dell’identità che permettono al minore di muovere i primi passi nello sperimentare l’efficacia e la praticabilità di nuovi e differenti modi di pensare e di agire. In Italia sono state introdotte diverse azioni nei contesti sociali e scolastici con il fine di arginare i fenomeni devianti. Queste azioni si presentano come ricerche-intervento svolte per prevenire comportamenti antisociali di preadolescenti e adolescenti. A tal fine si sono sviluppati diversi modelli
Il primo modello è quello medico di G. Caplan (1964) che pone l’attività di prevenzione in base alla fase di sviluppo del comportamento criminale e presenta tre tipi di prevenzione:
- la prevenzione primaria, che ha la funzione di rimuovere e diminuire i fattori criminogeni presenti nell’ambiente fisico e sociale, attraverso interventi educativi, di politica sociale e urbanistica;
- la prevenzione secondaria volta all’individuazione precoce di potenziali delinquenti, soprattutto tra i giovani, per i quali si sviluppano interventi in grado di ridurre il rischio di comportamenti antisociali;
- la prevenzione terziaria che si sviluppa dopo un reato e per questo essa è finalizzata ad evitare la recidiva.
Prevenzione sociale e prevenzione situazionale
La prevenzione sociale coincide con gli interventi di prevenzione primaria e ha come riferimento discipline quali la sociologia (Segre, 1996), la psicologia di comunità (Contessa, 1994) (Francescato, 1995) e l’ecoanalisi dei luoghi (Peled, 1990). Il target di questi interventi sono i bambini, i preadolescenti, gli adolescenti e i giovani adulti etichettati come “a rischio” di compimento di atti delinquenziali.
La prevenzione situazionale è volta principalmente ad ostacolare fisicamente il compimento dei reati, dimostrandosi una forma di prevenzione meccanica. Questo tipo di intervento, di solito, è volto alla promozione del benessere generale degli individui e delle loro famiglie, piuttosto che evitare comportamenti criminali. Esistono anche interventi di prevenzione individuali e tra di essi spicca l’interessante modello psicoeducativo di (Larson, 1995; Francescato, 1995), in cui gli interventi non sono tesi a prevenire un comportamento di tipo deviante o delinquenziale, ma direttamente sui giovani con azioni atte a promuovere situazioni di benessere, incrementando le loro abilità (training skills) e competenze per far fronte al rischio (coping).
Esperienze del gruppo di pari
Altre manovre di prevenzione della devianza adolescenziale sono le esperienze del gruppo dei pari (Blechman et al., 1994; Palmonari, 1992). La prospettiva della comunicazione nel gruppo è fondamentale e offerta da un interlocutore esterno, che deve evitare di imporre indicazioni di comportamento che siano vissute come minacciose dai soggetti. Questa figura deve favorire un dialogo aperto che consenta ai giovani di identificare alcune possibili strategie alternative a loro disposizione.
Skinner (Skinner, 1938), studioso americano che ha modificato lo schema classico comportamentista (Pavlov, Sechenov, Bechterev), si concentra sul concetto di “rinforzo” associato al comportamento umano. Per lo studioso americano, per comprendere le azioni umane bisogna osservare l’effetto che esse producono, le loro conseguenze, perché sono queste ultime a determinare le azioni. Lo scopo e l’intenzione, in questa teoria, non giocano nessun ruolo. Per comprendere l’agire umano bisogna considerare tre componenti essenziali:
- lo stimolo discriminante (il contesto nel quale la risposta si verifica);
- lo stimolo rinforzante (le conseguenze);
- il comportamento operante (la risposta del soggetto).
Sociologia della devianza: oltre i “rinforzi” di Skinner
I rinforzi possono essere positivi, e permettere così un aumento di probabilità che un determinato comportamento venga riprodotto nel tempo o negativi che comportano la riduzione o l’annullamento di determinati comportamenti. L’uso di quest’ultimo tipo di rinforzo viene sconsigliato perché può associarsi a stati emotivi negativi quali “ansietà” e “paura”. Lo scopo di queste ricerche è mirato alla progettazione e alla realizzazione di strategie rivolte al contenimento e alla riduzione del fenomeno, attraverso la collaborazione e l’aiuto degli insegnanti, genitori e gruppo dei pari.
Tra i rimedi e gli strumenti di prevenzione alla devianza giovanile, alle situazioni di disagio e marginalità, si possono elencare: la promozione della cittadinanza attiva; una reale partecipazione ad un gruppo (sportivo, religioso, artistico) con la guida di una personalità competente, autorevole e riconosciuta come tale, progetti di sensibilizzazione nei contesti scolastici.
Flavia Verona
Riferimenti
- Benadusi, L., Censi, A., & Fabretti, V. (2004). Educazione e socializzazione. Lineamenti di sociologia dell’educazione. Milano: FrancoAngeli.
- Blechman, E., Prinz, R., & Dumas, J. (1994). Prosocial Coping by Youth Exposed to Violence. Journal of Child and Adolescent Group Therapy, 4, 205-27.
- Caplan, G. (1964). Principles of preventive psichiatry. N.Y.: Basic Books.
- Contessa, G. (1994). La prevenzione. Teoria e modelli di psicosociologia e psicologia di comunità. Torino: Città di Studi.
- Durkheim, E. (1897). Le suicide. Etude de sociologie.
- Durkheim, E. (1922). La sociologia e l’educazione. (S. Acquaviva, Trad.) Roma: Newton Compton.
- Francescato, D. (1995). È sufficiente il modello psicoeducativo? Una riflessione su varie strategie di prevenzione primaria in Italia e negli Stati Uniti. Relazione sull’intervento di Dale G. Larson. Psicologia Clinica.
- Goffman, E. (1963). Stigma: notes on the management of spoiled identity. NJ: Englewood Cliffs.
- Larson, D. (1995). Il modello psicoeducativo e la salute mentale. Psicologia Clinica(3), 36-50.
- Matza, D. (1964). Delinquency and drift. New York.
- Matza, D. (1969). Becoming deviant. Englewood Cliffs.
- Merton, R. (1949). Teoria e struttura sociale.
- Palmonari, A. (1992). Psicologia dell’adolescenza. Bologna: Il Mulino.
- Parsons, T. (1951). Il sistema sociale.
- Peled. (1990). The Ecoanalysis of Places. The Architects Journal, 192(7), 49-55.
- Segre, S. (1996). La devianza giovanile. Cause sociali e politiche di prevenzione. Milano: Angeli.
- Skinner, B. (1938). The Behavior of Oragnisms. Aplleton-Century.
- Cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/sociologia-della-devianza_(Enciclopedia-Italiana)/