Era il 1943 quando l’architetto austriaco Victor Gruen inventava il primo centro commerciale moderno, un modello destinato a dilagare in tutto il mondo. L’idea era quella di rendere lo shopping invitante come non mai: negozi raggruppati in un unico edificio di modeste caratteristiche; ampio parcheggio; carico e scarico nascosti da pareti a schermo; all’interno, una zona verde che offre tranquillità; servizi di ogni tipo: negozi, librerie, cinema o teatro, sale ludiche, auditorium e sale giochi, estetisti e parrucchieri, perfino uffici postali e studi medici.
Eppure, solo qualche decennio più tardi, lo stesso Gruen riteneva si stesse verificando un tragico abbassamento del livello qualitativo dovuto a un cambiamento delle motivazioni dei costruttori, colpevoli di aver dimenticato le idee ambientali e umanistiche alla base del progetto originario e rimarcato solamente le caratteristiche fonte di profitto.
In altre parole, possiamo dire che l’idea di servire i bisogni di un certo quartiere venne soppiantata da quella di realizzare macchine commerciali enormi e potenti, collocabili ovunque: una logica che considera il territorio, nonostante i valori ambientali, storici, culturali e identitari presenti, sempre e comunque edificabile.
Il centro commerciale negli anni ’70
Negli anni Settanta, l’architetto dichiarò che “per l’Europa, copiare senza pensarci il centro commerciale americano è stato davvero catastrofico” (Gruen, 1978). Egli parlò di un vero e proprio “stupro economico” delle aree centrali, cresciute in modo organico per migliaia di anni e importanti espressioni di forma urbana piena di opportunità di genuina comunicazione tra uomini, cultura, arti e virtù. I centri commerciali iniziarono a indebolire seriamene il nucleo delle città e il loro centro storico, costringendo migliaia di piccoli negozi a chiudere e ponendo fine alla lunga tradizione della spesa all’angolo sotto casa.
Difronte alla crescita di questi grandi luoghi del consumo progettati, ma non costruiti, oppure costruiti, ma che si rivelano fallimenti economici, Gruen non prevedeva un futuro, avvertendo “gli inequivocabili segnali della loro caduta”.
Il centro commerciale in Europa
Eppure, mentre Inghilterra, Germania, Olanda e Francia hanno avviato misure per bloccare la crescita degli insediamenti commerciali, incentivando la piccola distribuzione, in Italia, la creazione di nuovi complessi commerciali che intendono offrire un’alternativa alla città, è un processo in pieno svolgimento: il Piemonte si colloca, da diversi anni, tra le regioni che hanno il maggior numero di progetti (di piccole e grandi dimensioni) in cantiere nella periferia delle città nonché all’interno di queste ultime, nel cuore pulsante di quartieri più o meno vivi.
Prima una centrocommercializzazione – dal termine inglese mallification, coniato dallo storico dell’architettura Iain Borden – delle nostre città (Borden et al., 2001): vie e piazze sono progressivamente diventate zone commerciali nelle quali l’accessibilità è correlata all’intenzione di consumare e spendere e nelle quali risulta sempre più difficile trovare un posto per sedersi (anche grazie alla collocazione di architettura ostile), nonostante si tratti, di fatto, di spazi pubblici. Poi, una vera e propria concessione di luoghi urbani dedicati specificatamente al consumo; aree aperte al pubblico, ma non di proprietà del pubblico (Augé, 1996); aree dai mille potenziali usi ridotte a sfondi dell’azione commerciale.
Risulta quindi molto interessante analizzare le relazioni che i luoghi del commercio stabiliscono, sotto diverse forme, con le differenti funzioni e caratteristiche dell’espansione e dell’organizzazione degli spazi urbani in cui vanno a dislocarsi (Parisini, 2019).
Il centro commerciale come regolatore dello spazio pubblico
I modi in cui le persone vivono dentro la città cambiano, così come cambiano gli edifici, i quartieri, le strutture architettoniche, i vicinati. L’impatto antropico muta la forma dello spazio urbano.
Mentre il concetto di spazio è astratto, il luogo “si riferisce quantomeno a un avvenimento, a un mito o a una storia” (Augè, 1996). Tuttavia, se un tempo i luoghi di aggregazione e di ricerca di beni e di relazioni all’interno dello spazio urbano erano le piazze e le vie del quartiere, nella società contemporanea queste ultime vengono abbandonate per affollare i centri commerciali. Anche se quartiere e vicinato persistono quali elementi fondamentali della struttura urbana, i luoghi del consumo sono oggi parte dell’immaginario collettivo.
Già Georg Simmel aveva indicato come non-luoghi gli spazi sociali che mutano nelle forme e nelle funzioni modellandosi sul carattere artificiale e intellettualizzato delle metropoli. Dopo di lui, Marc Augè li ha definiti come spazi anonimi, impersonali e di grandi dimensioni, senza identità né storia, frequentati da individui liberi dall’identità e dai comportamenti abituali (Augè, 1996).
In questo senso, possiamo intendere il centro commerciale come non-luogo dello spazio urbano. Per le loro caratteristiche, i non-luoghi avvicinano, ma non mescolano: all’interno di essi le persone transitano, ma nessuno vi abita; esistono per tutti, ma non accolgono nessuna società organica. Tutto è calcolato con precisione e ogni azione è regolata da specifiche modalità e prescrizioni. Gli individui al loro interno sono clienti, fruitori che agiscono sotto un medesimo codice.
I non-luoghi del consumo
Come già accennato precedentemente, si tratta di aree aperte al pubblico, ma non di proprietà del pubblico. Tendono ad assomigliarsi: la disposizione dei negozi, l’illuminazione, la collocazione della merce, i cartelli e le insegne rispettano comuni canoni di marketing, che hanno l’obiettivo di attrarre i visitatori. Del resto, la società dei consumatori nella quale viviamo, è un tipo di società che “interpella i suoi membri principalmente in veste di consumatori” (Bauman, 2007).
Nonostante l’annullamento individuale e l’omologazione, i non luoghi non sono vissuti noia o con ansia, ma con una valenza positiva: gli utenti usufruiscono dei servizi nei centri commerciali – dove tutto è a portata di mano – vi passano anche molto tempo, si svagano, incontrano amici o parenti, vivono esperienze sensoriali; non solo, in quanto estremamente sorvegliati e controllati, questi luoghi vengono percepiti come sicuri, privi di pericoli o di conflitti, a differenza degli spazi pubblici tradizionali della città – piazze e strade – nei quali circolano insicurezza e paura.
Lo stesso Augè ammette come molti individui possano considerare il centro commerciale non solo per lo shopping, ma come luogo di frequentazione ricco di socialità. In questo caso l’individuo percepisce il centro commerciale, parte della sfera collettiva, come spazio pubblico urbano (Mitchell, 1995) e lo assimila alla città, perdendo la possibilità di incontri casuali, di conflitti, di confronti e di scoperte casuali correlate agli spazi propriamente urbani (Gazzola & Venturini, 2005).
Ecco che il non-luogo commerciale acquisisce un senso sociale (più correttamente definibile come illusione di socializzazione) diventando un superluogo, generando un senso di appartenenza, poiché, come scriveva lo stesso Augè (2007), questo mondo-città lo abitiamo un po’ tutti.
Superluoghi ed esperienze emozionali
Il confine del superluogo è labile, indistinto, ben inserito e integrato nel tessuto urbano della città nella quale è inserito e vanta una connotazione simbolica. Al suo interno, la distanza sociale, l’indifferenza, l’imitazione aumentano; eppure, il superluogo urbano ha una capacità, ovvero quella di catalizzare masse e flussi; “una capacità che deriva dalla sua potenza simbolica, dal suo peso economico, dal suo ruolo nella società moderna. Ma anche dalla sua velocità d’azione e adattamento” (Agnoletto et al., 2007).
La crescente domanda di esperienza emozionale è accolta dal centro commerciale, il quale risponde con la promessa di pratiche di consumo multisensoriali ed emotivamente coinvolgenti, “ibridando gli spazi di vendita e quelli destinati al tempo libero” (Napolitano et al., 2003, p. 51).
Entra qui in gioco la tesi ricorrente della privatizzazione dello spazio pubblico. Se la natura di quest’ultimo definisce la natura della cittadinanza (Mitchell, 1995, p. 85) e costituisce, di fatto, la città, allora la sua perdita rappresenta la perdita dell’idea di città (Madanipour, 2010).
Certo, non si può ignorare il fatto che, con il diffondersi di spazi privati come i centri commerciali, crescono anche gli spazi a uso collettivo; inoltre, non sempre la sfera pubblica si esprime nello spazio pubblico (si pensi, ad esempio, agli spazi virtuali).
Processi di esclusione
Tuttavia, non bisogna dimenticare che il centro commerciale, pur cercando di attrarre un pubblico il più ampio possibile, esclude tutti coloro giudicati pericolosi o inappropriati, o con una classe sociale o posizione culturale differente rispetto ai target stabiliti. E non lo fa solamente filtrando gli ingressi, ma anche all’esterno, su tutta l’area che lo circonda, presentando spesso elementi d’architettura ostile – molto diffuse le scomode panchine o i grandi vasi con piante ornamentali – giardini recintati e parcheggi video-sorvegliati. Vi è poi un’eliminazione totale del pericolo e dell’ignoto mediante l’utilizzo, sia all’esterno che all’interno, di una pavimentazione perfettamente levigata che evita al consumatore di dover tenere gli occhi bassi, permettendogli di guardare le vetrine con tranquillità.
Questo processo di esclusione di pericoli e di individui pericolosi – o solo percepiti come tali – risponde certamente alla domanda di sicurezza da parte del cittadino dello spazio urbano: lo stesso dinamismo economico, sociale e culturale della città industriale – e poi di quella post-industriale – ha permesso alle libertà e ai diritti individuali di affermarsi, creando però anche un sentimento d’insicurezza generalizzato, destrutturando le relazioni comunitarie e di vicinato (Acierno, 2003). Ed ecco che “è la proprietà che protegge” (Castel, 2004, p. 13).
Il centro commerciale, quindi, è in grado di produrre identità – seppur temporanee e non autentiche – poiché la maggior parte degli individui gli attribuisce un significato, si affeziona, impara a riconoscere gli spazi, i percorsi e gli ambienti (Codeluppi, 2007) e lo percepisce come sicuro.
Riqualificazione e vetrinizzazione
In ultimo, è importante ricordare due processi ai quali esso è collegato.
Il primo è quello della riqualificazione: i centri commerciali sono frequentemente usati come leva per il riuso di luoghi urbani abbandonati, dismessi o in disuso e la loro realizzazione è spesso accompagnata da trasformazioni urbane della zona circostante o dell’interno quartiere. Questo fenomeno può poi evolvere verso quella che la sociologa inglese Ruth Glass definisce come gentrificazione (1964), ovvero un complesso di interventi di tipo strutturale, urbanistico, economico e socioculturale grazie al quale interi quartieri e aree cittadine, abitati in prevalenza da ceti sociali a basso reddito, vengono sottoposti ad azioni riqualificanti con l’obbiettivo di determinare un innalzamento dei valori immobiliari e la conseguente espulsione del nucleo originario di abitanti e la loro sostituzione con ceti ricchi.
Non tutti i quartieri garantiscono le stesse possibilità dal punto di vista dei servizi e delle opportunità, ed ecco che la nascita di un nuovo centro commerciale può avere effetti non solo nello spazio urbano circostante, ma anche nei quartieri limitrofi, modificandone la mobilità e lo sviluppo.
Il secondo è il processo che il sociologo Vanni Codeluppi definisce vetrinizzazione (2007): la vetrina diventa un elemento predominante che permette all’apparire di predominare sull’essere; una barriera trasparente in grado di attrarre e, allo stesso tempo, separare.
Il centro commerciale nel contesto pandemico e post-pandemico
Il lockdown nazionale e l’imposizione di chiusura hanno reso il modello del centro commerciale temporaneamente irrealizzabile, mentre il divieto di assembramenti e l’obbligo di distanziamento sociale attuali stanno ponendo nuove sfide per la sua sopravvivenza.
Il declino dei luoghi del consumo, anche se in ritardo rispetto agli Stati Uniti, era già in atto da diversi anni; la causa principale è da ricercare in una “trasformazione silenziosa” (Jullien, 2010) che opera da sé senza avvisare, senza dare l’allarme, e che impone il risultato solo alla fine: l’inesorabile avanzata tecnologica che rende il raggiungimento dei servizi e delle merci – e talvolta anche delle emozioni – più semplice e veloce. Così il centro commerciale entra in crisi mentre la scelta degli individui ricade sui siti e-commerce, sulle piattaforme streaming, sul food delivery.
Tuttavia, se è vero che, in questo senso, l’arrivo del Covid-19 non ha fatto altro che accelerare un processo già in atto, è anche vero che ciò è avvenuto in tempi estremamente brevi e, per questo, ha avuto un impatto alquanto rilevante.
Rinunce
Piegati dal virus, ci vediamo costretti – con tutta la fretta del caso – a insegnare l’uso dei social e delle videochiamate ai nostri nonni, a rinunciare alle uscite con gli amici, a mantenere le distanze dai nostri cari, ad acquistare online anche ciò che non avremmo mai pensato di acquistare, a mettere un tablet connesso a internet nelle mani di nostro figlio; allo stesso modo siamo disposti – e costretti – a rinunciare alle domeniche nei centri commerciali, cercando, attraverso i numerosi strumenti a disposizione (commercio online, ristorazione a domicilio, cinematografia in streaming, console di videogiochi) di riprodurne il modello all’interno delle mura domestiche.
Così, il pubblico di massa che prima si trovava unito nel centro commerciale, condividendo questo luogo di consumo e le esperienze emozionali a esso correlate, subisce un ulteriore appiattimento emozionale, mentre quel tipo di attività spazializzate si avviano verso il declino.
Con i centri commerciali chiusi, lo shopping è diventato a tutti gli effetti una pratica virtuale: da gennaio a giugno 2020, sono stati 2 milioni i nuovi consumatori online, con un tasso di crescita triplicato rispetto al medesimo periodo dell’anno precedente.
Commercio locale di quartiere
Non bisogna inoltre dimenticare che il divieto di allontanarsi dal proprio domicilio e la chiusura dei grandi centri del consumo ha permesso il riemergere dei negozi di vicinato. Nell’immaginario collettivo, essi sono stati per anni associati al proprio territorio, alla propria zona di vita; oltre all’offerta di merci necessarie agli abitanti del quartiere, le piccole attività di vicinato svolgono anche una funzione sociale, un’offerta di relazioni umane, un rapporto di fiducia e sostegno reciproco. Tuttavia, negli ultimi decenni, il mutamento urbano aveva investito anche questi piccoli spazi rendendoli sempre più invisibili agli occhi del cittadino.
In piena pandemia, i negozi di quartiere si sono collocati al centro di due poli opposti, ma interconnessi, ovvero la paura del contagio che costringe a rinchiudersi in casa e la necessità di rapporti umani che spinge alla ricerca di un modo per evadere, per trovarsi fisicamente in un luogo preciso. Alzando e abbassando la serranda, hanno saputo adattarsi alle richieste dei numerosi DPCM, offrendo, di volta in volta, servizi di consegna a domicilio o di prenotazione e ritiro dei prodotti mediante l’utilizzo di siti web o applicazioni, creando un “e-commerce di prossimità”.
Così, il quartiere, uno spazio di vicinato che “più di altri negli ultimi decenni ha subito un forte processo di erosione del suolo pubblico, dei servizi collettivi e delle attività commerciali” (Tosi, 2020, p. 4) ha assistito al ritorno di attività dimenticate e al riuso di spazi marginali. Questo fenomeno è stato comune a diverse città, tanto da spingerne molte a proporre il decentramento dei servizi e delle attrezzature in modo che in ogni quartiere ci siano tanti piccoli punti di aggregazione raggiungibili a piedi in un quarto d’ora.
Se il quartiere è diventato il dispositivo di consolidamento delle relazioni corte, la rete web ci ha consentito di rimanere in contatto con ciò e con chi era più lontano.
Oltre il Delivery
Molte delle soluzioni utilizzate per far fronte alla situazione, adottate anche dai centri commerciali, consistono in un’ibridazione tra online e offline; si pensi al click and collect, al delivery, al drive in o, ancora, al webrooming (la ricerca di informazioni sulla rete e il conseguente acquisto in negozio); se è vero che la tendenza ad acquistare e divertirsi dal divano di casa sta crescendo poiché si tratta di modalità più comode, veloci e sicure, è anche vero che – forse – non siamo ancora disposti a rinunciare del tutto all’interazione sociale che queste attività offrono.
Ma queste mutazioni delle modalità di aggregazione, dei luoghi della socialità, degli spazi del consumo, sono permanenti? Il vicinato è rifiorito per sempre o si tratta di una fase circoscritta alle circostanze particolari nelle quali ci troviamo? Il centro commerciale tornerà a essere percepito come luogo sicuro, privo di pericoli e adatto al divertimento, o, al contrario, questa pandemia rappresenta il colpo di grazia che cancellerà per sempre la formula del retail park tanto amata dagli statunitensi del passato? E, se così fosse, quale il destino di tutti quei superluoghi che hanno richiesto investimenti e tempo, ma anche il sacrificio di molto spazio pubblico?
Giulia Candida
Bibliografia
- Acierno A. (2003), Dagli spazi della paura all’urbanistica per la sicurezza, Alinea Editrice, Firenze.
- Agnoletto M., Del Piano A., Guerzoni M. (2007), La civiltà dei superluoghi. Notizie dalla metropoli quotidiana, Damiani Editore, Bologna.
- Augè M. (1996), Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano.
- Bauman Z. (2007), Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, Erickson, Gardolo.
- Borden I., Kerr J., Pivaro A., Rendell J. (2001), The Unknown City: Contesting Architecture and Social Space, MIT Press, Cambridge (USA).
- Castel R. (2011), L’ insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Einaudi, Torino.
- Codeluppi V. (2007), La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino.
- Gazzola A., Venturini M. (2005), L’acquisto fluido. Vita sociale urbana e spazi commerciali, COEDIT, Genova.
- Gruen V. (1978), The sad story of Shopping Centres, International Council for Shopping Centers, New York.
- Jullien, F. (2010), Le trasformazioni silenziose, Cortina Raffaello, Milano.
- Madanipour, A. (2010), Whose Public Space, in A. Madanipour (Ed.), Whose Public Space? International Case Studies in Urban Design and Development (pp. 237-243), Routledge, New York.
- Mitchell V. W. (1995), Organizational Risk Perception and Reduction: A Literature Review, in British Journal of Management, 6 (2), pp. 115-133.
- Napolitano M. R., Resciniti R., De Nisco A. (2003), Retail, entertainment e creazione di valore. Un’indagine sui centri commerciali in Italia, in Industria e distribuzione, 4/2003, pp. 51-67.
- Parisini R. (2019), Luoghi del commercio e spazi urbani nell’età dei consumi di massa, in Storia urbana, 164/2019, pp. 5-12.
- Tosi M. C. (2020), Covid-19. Il presente non è più come una volta, in Academia, pp. 1-4.