In Italia la situazione lavorativa dei sociologi non è delle migliori. Come informano i dati Almalaurea (2014) a lavorare sono soltanto il 44% dei laureati. Quasi il 27%, invece, risulta disoccupato e soltanto il 32% si può definire occupato stabilmente. A differenza dei laureati in altre discipline come economia, ingegneria e farmacia – il cui dato sull’occupazione si aggira intorno al 70% (facendo un calcolo in media) – la situazione occupazionale dei giovani laureati in sociologia è molto diversa. Se si guarda la situazione in anni precedenti, si comprende che il tasso di disoccupazione era più basso nel 2008 (si aggirava intorno al 15% circa) e poi è andato progressivamente aumentando (nel 2012 arriva al 23% circa). C’è da dire però, che se si considera la situazione ad un anno dalla laurea (si parla di laurea magistrale) la situazione non differisce quasi per tutti i laureati. Le discrepanze si notano, invece, se si considera il lasso temporale “a tre anni dalla laurea” dove si registra un netto vantaggio per i laureati in altre discipline come quelle economiche, scientifiche e tecnologiche.
Il sociologo che non fa il sociologo

Ad avvalorare questa tesi è il differenziale che si registra in termini reddituali: in media, un sociologo guadagna circa 900 euro al mese, contro una media di 1100 euro di un economista. Un altro dato ritenuto interessante è il seguente: circa il 31% degli occupati dottori in sociologia già svolgeva un lavoro precedente alla laurea. Dunque si può presupporre che la laurea in sociologia premia chi è già inserito nel circuito lavorativo mentre lo svantaggio si registra per chi intende accedere al mercato del lavoro. Fermo restando che la crisi economica ha destabilizzato la situazione occupazionale di tutti i laureati e che bisogna tener conto di tante altre variabili intervenute ad influenzare il fenomeno (ad esempio il divario Nord-Sud è imprescindibile) ci si chiede se la laurea in sociologia trova un riscontro reale, quando si tratta di coerenza con il tipo di lavoro svolto: emerge chiaramente che la maggior parte dei laureati non svolge il lavoro di sociologo. Molti vengono occupati in ambito amministrativo e lo sbocco privilegiato è sicuramente la pubblica amministrazione. Benché si riscontra uno sbocco lavorativo in ambito delle risorse umane, la probabilità che un laureato in sociologia venga impiegato nelle aziende come sociologo è molto bassa.
Si stava meglio quando si stava peggio?
Ma la condizione dei laureati in sociologia è sempre stata così approssimativa? I dati Istat nel 1995 affermano che la laurea in sociologia rientrava tra le lauree umanistiche (scienze politiche, lettere, filosofia, giurisprudenza) con un più alto tasso di occupazione (intorno al 70%). Cosa è cambiato dal 1995 ad oggi? Sono cambiate tante cose, dalle tipologie contrattuali a finire ad un nuovo modello di produzione e di lavoro, passando per un modello sistemico ribaltato. Tuttavia, pur se parziale, si possono fare alcune considerazioni. La laurea in sociologia, prima della riforma Moratti, vantava di molti sbocchi occupazionali, a cominciare dal settore statistico e di analisi dei dati (quello più fisiologico) a finire all’ambito dell’insegnamento, dell’educazione, della formazione, del marketing, del giornalismo, del terzo settore. Per dirla meglio, anche oggi la laurea in sociologia ha pressappoco questi sbocchi ma si ha la sensazione che l’aumento dell’offerta formativa in settori sempre più specifici (oggi esistono tante lauree, come quella in scienze dell’educazione, della formazione primaria) abbia inciso sulla pauperizzazione del sapere professionale del sociologo, restringendo notevolmente il suo campo di azione.
Flora Frate