Si è conclusa questa settimana The Last Dance, la docuserie instant cult di ESPN che racconta l’ultima grande stagione dei Chicago Bulls, quella del 1997/98, l’ultima di Michael Jordan e della squadra che ha dominato la lega di basket americana per quasi un decennio. L’ultimo ballo della squadra allenata da Phil Jackson che ha conquistato sei titoli NBA in otto anni, tutti con il numero 23 in campo. Quella del 97/98 era stata annunciata fin da subito come l’ultima stagione della squadra che a fine anno sarebbe stata rivoluzionata, così la società decise di seguire i giocatori durante tutto l’anno, dentro e fuori dal campo: alla fine si ottennero più di 500 ore di materiale video dal quali è stata tirata fuori la serie tv, che in pochissimo tempo è diventato il prodotto di casa Netflix più visto in Italia, superando, meritatamente (!), La casa di carta.
La forza della narrazione
Michael Jordan ha chiuso la sua parentesi con il baseball, già da molti anni è uno degli uomini più famosi ed influenti del pianeta ed è anche stato protagonista di un film. Questa sarà la sua ultima stagione e l’obiettivo è soltanto uno: vincere il sesto titolo NBA e restare nei libri di storia. Non bisogna essere appassionati di basket per apprezzare The Last Dance, anzi si potrebbe tranquillamente essere estranei al mondo dello sport e amare alla follia le imprese di Michael Jordan e compagni. Ancora oggi il numero 23 è un’icona sacra e la sua silhouette è indossata da milioni di ragazzi nel mondo che probabilmente di basket non ne sanno nulla. La grande forza di The Last Dance risiede nella narrazione, un viaggio dell’eroe dove ogni personaggio ricopre il proprio ruolo, un’impresa sportiva raccontata come una cavalcata epica verso un obiettivo sovrannaturale, uomini che si spingono oltre i propri limiti e si mettono a nudo mostrando le debolezze che si celano dietro la stazza enorme. La serie viaggia avanti e indietro nel tempo, ogni episodio inizia nel ’98, poi si torna indietro nel tempo per ripercorrere la storia fin dall’inizio, ovvero dall’arrivo di MJ a Chicago. I primi episodi presentano i personaggi principali che poi sono, oltre al già citato MJ, Scottie Pippen, Dennis Rodman e l’allenatore Phil Jackson. Ognuno è presentato singolarmente e ognuno ha la sua storia da raccontare, a partire dall’infanzia difficile di Pippen fino alle turbolente serate proibite di Rodman.
Questione di immedesimazione
Sappiamo tutti come è finita quella stagione: sesto titolo NBA e squadra che entra nella leggenda. Allora perché tutti guardiamo The Last Dance come se non conoscessimo il finale? Perché ci emozioniamo per le imprese dei giocatori e per quel tiro all’ultimo secondo di John Paxson se già sappiamo dove andrà la palla? La risposta è nel racconto a flashback, una molla tra passato, presente e futuro che alimenta tensioni, suspense e permette allo spettatore di comprendere le motivazioni che si celano dietro la mentalità vincente, quasi ossessiva, della squadra. Non c’è spoiler che tenga, resteremo incollati allo schermo perché la potenza del racconto è più attrattiva di qualsiasi colpo di scena. Come Tiger King, altra docuserie di successo in casa Netflix, The Last Dance ha soddisfatto la voglia del pubblico di assistere a grandi storie reali, arricchite da una narrazione dai toni epici e surreali ma di grande impatto visivo ed emozionale che possano essere fonte d’ispirazione in periodi difficili come quello che stiamo vivendo. E poi c’è l’immedesimazione. Michael Jordan, il grande uomo imbattibile in campo e amato da tutti, in realtà nasconde infinite debolezze. Il 23 è un uomo logorato da un carattere competitivo e la serie ne mette in mostra gli eccessi, le uscite infelici, la passione per le scommesse e anche i crolli psicologici. Non più un mito inarrivabile ma un uomo fragile come gli altri, che ha accettato i difetti, inseguito le proprie ambizioni di vittoria fino allo sfinimento. Fino a realizzarle.
Mirko Migliore
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