Novembre 2018, è questa la data di uscita di “Walk this way – La subcultura Hip hop dall’Italia agli Stati Uniti”, a cura di Simone Nigrisoli. Simone è un giornalista pubblicista, iscritto all’ordine dei giornalisti della Valle d’Aosta. Inizia la propria carriera presso un giornale locale di Aosta, nel 2014. Nella stessa città è infatti nato e cresciuto. Successivamente, ha lavorato a Roma, dove tutt’ora vive. Ha studiato presso l’Università di Urbino “Carlo Bo” conseguendo il titolo di Dottore in Scienze delle Comunicazioni. Ha scritto, per ben tre anni, per “Il Resto del Carlino” occupandosi, in particolare, delle pagine di arte, cultura, cronaca e politica. È un grande appassionato di sociologia e stimatore dei più grandi studiosi del settore. Simone è anche un ottimo fotografo freelance.
Poiché un libro costituisce sempre una parte dell’anima di chi lo ha redatto, conosciamo più da vicino chi è veramente Simone.
“Walk this way. La subcultura Hip hop dall’Italia agli Stati Uniti”. Per quale motivo, Simone, hai scritto questo libro?
Prima di tutto vi devo confessare che questo libro parte dalla mia tesi di laurea, che si intitola “La subcultura Hip Hop e la musica rap”, che ho fatto con la professoressa di sociologia della cultura dell’Università di Urbino Roberta Bartoletti, che è una delle persone più esperte in Italia riguardo al tema delle subculture. Il lavoro che avevo svolto mi aveva soddisfatto, e quindi ho deciso di arricchirlo con delle interviste e di provare a pubblicarlo, e per fortuna ho trovato una casa editrice disposta ad investire sul mio progetto, anche se la ricerca non è stata facile.
Cosa rappresenta per te, personalmente e professionalmente, la pubblicazione di questo volume?
Penso che una pubblicazione vera e propria rappresenti un ottimo traguardo per chiunque lavori nel mercato culturale, oltre che una grande soddisfazione a livello personale. Quando fai il giornalista e stai pubblicato un libro con una casa editrice significa che stai facendo un salto di qualità, e che scrivere sta diventando il tuo obiettivo nella vita.
Cosa (o chi) l’ha ispirato?
Ti sembrerà strano, ma ciò che ha ispirato il mio libro è stato un documentario sulla musica Metal. Durante un progetto sulle subculture che ho fatto qualche anno fa quando ero ancora studente all’Università di Urbino, ci hanno fatto vedere un documentario dove intervistavano musicisti e supporter metallari di tutto il mondo. A dire la verità rimasi molto deluso da questo documentario, perché chi prendeva la parola non faceva altro che parlare di satanismo e di quanto odiasse la musica commerciale. Allora incominciai a pensare quale subcultura mi avrebbe potuto davvero stupire, e il mio istinto mi guidò verso l’Hip Hop, e difatti avevo ragione. Volevo studiare qualcosa che mi lasciasse senza fiato, e che mi facesse capire fino in fondo cosa significhi fare parte di un “gruppo” che si differenzia dalla cultura dominante con dei valori e delle norme totalmente diverse, che non siano solamente odio verso il conformismo.
Il tema della subcultura è di per sé complesso quanto eterogeneo. Durante le tue ricerche, focalizzate sull’Hip hop, ci sono stati risultati inattesi e scoperte impreviste?
Assolutamente! La mia ricerca è stata uno stupore continuo. Ricordo che la mattina non vedevo l’ora di svegliarmi e andare in biblioteca per leggere i libri che avevo comprato e scoprire cose nuove sull’hip hop. L’hip hop è una subcultura talmente ricca culturalmente che qualsiasi appassionato di arte, politica e sociologia dovrebbe studiarla. Nessuna subcultura al mondo ha mai avuto una storia così incredibile ed è stata così comunicativamente potente come l’hip hop, quindi consiglio a tutti di leggere il mio libro se si vuole scoprire meglio questo mondo, e magari provare le emozioni che ho provato io.
C’è una particolare teoria sociologica, descritta nel tuo libro, che ti ha particolarmente colpito e che credi sia di vitale importanza nella comprensione del fenomeno in esame?
Sì, la teoria sociologica che più mi ha colpito della subcultura hip hop è di come, a differenza delle altre subculture, questa abbia sempre avuto bisogno dell’esposizione mediatica per la sua diffusione, evoluzione e crescita, il che è una vera particolarità per quanto riguarda qualcosa nato dal basso. La teoria dell’hip hip come “controcultura” credo la si possa attribuire solo per quanto riguarda il particolare contesto italiano (anche questo sarà spiegato nel libro), perché la subcultura hip hip americana originale non vuole essere conflittuale e nemmeno vuole scandalizzare i modelli culturali dominanti, ma si vuole prendere lo spazio dovuto e arrogarsi il diritto di esistere sul mainstream.
Giulia Marra
