Abbiamo, anche in Italia, un ricco e alquanto sfaccettato dibattito sul razzismo; se ne parla attraverso i social network ed in televisione, in convegni e seminari; ci sono iniziative editoriali, innumerevoli studi ed inchieste scientifiche. “Razzismo” è un’espressione che definisce alcuni tratti inequivocabili della nostra società. Questo articolo nasce da un’inquietudine legata al momento e al luogo in cui è stato redatto: la nostra, non è forse una società “razzista”? È il caso di negarlo?
Mettiamoci alla prova
Fenomeno planetario e con spessore storico considerevole, il razzismo viene alcune volte definito in senso lato, come sinonimo di esclusione o di rifiuto dell’alterità. Perché si possa parlare di razzismo, vi deve necessariamente essere la presenza dell’idea di un legame tra gli elementi distintivi o il patrimonio fisico, genetico e biologico di un individuo (o di un gruppo) e le sue caratteristiche intellettuali o morali. L’evidenziare caratteristiche fisiche o biologiche per giustificare rapporti di dominio, di esclusione o di distruzione, costituisce una forma di razzismo. Per comprendere il concetto, è possibile mettersi personalmente alla prova. Osservate l’immagine che segue, quindi, rispondete spontaneamente ad una semplice domanda: chi vi è rappresento?
Le risposte che precludono una forma dialogica ed espressiva di razzismo sono: “bambino” (assumendo, solo in questo caso, anche una prospettiva di genere), “essere umano” e “persona”. Qualsiasi altra prospettiva, poiché prende in considerazione l’aspetto fisico del soggetto, potrebbe suggerire, evidenti o meno, forme di xenofobia. L’aver adottato tali categorie descrittive, utilizzate nell’identificazione conoscitiva del soggetto, rivela le basi di un processo di apprendimento, operante attraverso le relazioni interpersonali, in seno ad una società e a gruppi maggioritari, caratterizzati dalla discriminazione razziale. Usereste gli stessi aggettivi per descrivere il bambino raffigurato nella seguente immagine? Probabilmente no.
Le forme del razzismo
È possibile, secondo Michel Wieviorka, sociologo francese, direttore del Centre d’analyse ed intervention sociologiques (CADIS) dal 1993, membro del comitato esecutivo del Consiglio internazionale sulle scienze sociali dell’UNISCO dal 2004 e, dal 2006, presidente dell’Associazione internazionale di Sociologia – ISA, distinguere quattro livelli di razzismo:
1) a un primo livello, conviene parlare di “infrarazzismo” piuttosto che di razzismo vero e proprio. Il fenomeno, in questo caso, è minore e appartenetemene disarticolato. Si osserva la presenza di teorie, la diffusione di pregiudizi e di opinioni più xenofobi che non propriamente razzisti, più legati a identità comunitarie che autenticamente razziali. Può fare la sua comparsa la violenza, diffusa o molto localizzata; la segregazione può delinearsi, sia a livello sociale che razziale, per esempio intorno a sacche in cui la miseria e la disoccupazione competono con l’emarginazione di gruppi etnici; la discriminazione si incontra qua e là, in alcune istituzioni, dove è nondimeno degradante e vergognosa e non è debitamente stigmatizzata.
2) A un secondo livello, il razzismo permane frammentato, ma è già nettamente più preciso ed affermato. Si mostra come tale, apertamente espresso, quantificabile, per esempio nei sondaggi di opinione. La teoria è più diffusa, anima pubblicazioni più numerose, circoli e gruppi influenti e la violenza è più frequente e reiterata, tanto da non essere più considerata un problema secondario. Anche la segregazione e la discriminazione sono più marcate, percepibili in diversi ambiti della vita sociale o con una chiara collazione spaziale. L’insieme fa massa, ma appare ancora sconnesso, come se una stessa spinta attraversasse la società, ma non ci fosse un collante a conferire unità concreta alle diverse espressioni.
3) Tale collante appare al terzo livello, allorché il razzismo diventa il principio attivo di una forza politica o parapolitica, suscitando dibattiti ed esercitando pressioni, mobilitando ampie fasce della popolazione, creando un contesto favorevole alla violenza di massa o utilizzandola direttamente come uno strumento all’interno di una strategia di presa del potere. A questo stadio, il movimento politico capitalizza ed orienta le opinioni e i pregiudizi; rivendica elementi teorici che cessano di essere marginali, forma propri intellettuali organici, si inscrive in una tradizione ideologica e invoca concrete misure discriminatorie o un progetto di segregazione razziale.
4) Infine, un ultimo livello, viene raggiunto dal momento in cui lo stato stesso si organizza a partire dagli orientamenti razzisti, sviluppa politiche e programmi di esclusione, distruzione o discriminazione di massa, fa appello a scienziati e intellettuali perché contribuiscano a tale sforzo, mobilita gli strumenti del diritto per affermare le categorie razziali, struttura le istituzioni in funzioni di tali prerogative. Il razzismo diventa “totale” qualora coloro che dirigono lo stato riescono a subordinargli qualsiasi forma di organizzazione sociale: la scienza, la tecnica, le istituzioni ed anche l’economia, i valori morali e religiosi, il passato storico, le espansioni militari; e a tutti i livelli, senza dibattito o possibilità di contestazione. Il razzismo è totale, in altre parole, nella forma in cui riesce a fondere in una sola dimensione tutto ciò che accorda al gruppo discriminato una collocazione, anche se molto inferiorizzata, all’interno della società.
È a questa forma di razzismo che la nostra società ambisce nuovamente?
Giulia Marra
