Il Consiglio europeo ha inserito il dispositivo del welfare aziendale all’interno delle misure volte alla valorizzazione della parità di genere e la conciliazione tra vita professionale e familiare. Strumento chiave per migliorare il benessere organizzativo e la produttività di un’impresa, è destinato ad accrescere il benessere dei dipendenti e a essere utilizzato per attrarre forza lavoro giovane e qualificata. Analizzando il Welfare index PMI di quest’anno, pubblicato il 6 dicembre da un team di economisti, è possibile capire come è andata in questo 2022.

Il welfare aziendale come patto sociale e il modello di analisi Welfare Index PMI

Il welfare aziendale è un insieme di servizi e dispositivi in denaro progettati per accrescere il benessere personale, lavorativo e familiare dei dipendenti di un’impresa, con l’obiettivo di migliorarne il benessere organizzativo e la produttività (Santoni, 2017). La direttiva europea “Equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza” (Consiglio dell’Unione Europea, 2022), ha annoverato questa misura all’interno di un approccio strategico a lungo termine volto all’esplorazione delle opportunità di sviluppo di servizi e modelli innovativi, con l’obiettivo di spingere le aziende a valorizzare la parità di genere e la conciliazione tra vita professionale e familiare (Istituto per la Ricerca Sociale, 2022).

In questo modo, si punta a promuovere l’equilibrio tra gli aspetti della vita del lavoratore, aumentando la qualità del tempo da esso passato fuori dal lavoro, ed una ripartizione delle responsabilità familiari tra donne e uomini più equamente distribuita.

Il rapporto 2022

Per analizzare nel dettaglio i progressi compiuti ci riferiamo al rapporto 2022 “Welfare aziendale: un patto sociale per il paese”, redatto da un collettivo di economisti sul modello di analisi Welfare Index PMI, che definisce quali sono le imprese Welfare Champion italiane, ovvero il cui indice è superiore a 45/100 (Welfare Index PMI, 2022). Questo dato viene calcolato elaborando separatamente tre indici: di iniziativa, di capacità gestionale e di impatto sociale, producendone poi una sintesi equivalente all’indice di welfare aziendale.

Si tratta, rispettivamente, della misura dell’ampiezza e dell’intensità delle iniziative adottate dalle imprese, ovvero in quante aree l’impresa è attiva, con quali e quante iniziative; della misura del modo in cui sono attuate le politiche, considerando la proattività delle aziende, ovvero la loro propensione ad attuare iniziative autonome o consistenti nella mera applicazione di misure previste dai contratti collettivi, le modalità adottate, le competenze di cui dispongono, il livello di comunicazione e il coinvolgimento dei lavoratori da parte dell’azienda; e, infine, della misura del risultato delle iniziative effettuate tramite indicatori quali la composizione e il trend dell’occupazione, le condizioni lavorative, il contributo alla comunità locale e l’impegno verso consumatori e fornitori.

I primi dettagli dell’indagine

Attualmente, l’indagine conta la partecipazione di 6.532 aziende, ed è arrivata a considerare ben 156 variabili (l’anno scorso erano 127). Tra queste, possiamo individuarne di 4 tipi diversi, a seconda dell’importanza che danno, appunto, al welfare aziendale all’interno della propria vision imprenditoriale. Le più virtuose, che potremmo identificare come Welfare Champions, considerano il welfare una leva strategica di sviluppo sostenibile, investendoci con decisione e proattività all’interno di una visione strategica di lungo termine, seguita direttamente dal titolare o dai responsabili generali dell’azienda. Le imprese considerabili Welfare Leader (con un indice che oscilla tra 35/100 e 45/100), poi, lo considerano come benefit significativo, investendoci più della media ma limitandosi ad imitare le pratiche aziendali più diffuse, che spesso coincidono con l’erogazione di benefit (cioè di meccanismi di remunerazione delle performance raggiunte, sostitutivi della remunerazione monetaria) tramite piattaforme.

Altre aziende, invece, hanno una buona consapevolezza dello strumento, ma svolgono un’attività limitata, e sono identificabili come imprese Welfare Promoter (con un punteggio tra i 25/100 e i 35/100) o Welfare Supporter (tra i 15/100 e i 25/100). I loro manager, da questo punto di vista, dedicano attenzione alle relazioni sociali, attuano iniziative oltre quelle previste dai contratti e coinvolgono efficacemente i propri lavoratori, ma senza investire molte risorse in merito e concentrandosi su un range limitato di iniziative. Infine, le imprese Welfare Accrediter (indice massimo di 15/100), considerano il welfare un ambito secondario, e si posizionano a livello iniziale sia per iniziativa che per capacità gestionale.

Il welfare aziendale come strumento occupazionale e per ridurre le disuguaglianze di genere

Il profilo più numeroso è “Buona consapevolezza ma attività limitata”, a cui corrisponde il 33, 8% delle imprese, in aumento dal 2016, quando è iniziata l’indagine, a discapito del secondo profilo più numeroso, ovvero “Welfare come ambito secondario”, che conta il 29,8% del totale ma che è in forte calo (nel 2016 contava più del 40% delle imprese!). In rialzo graduale (22,3%), poi, il numero delle imprese che considera il welfare come un benefit significativo, mentre è addirittura raddoppiato il numero delle imprese Welfare Champions, passato dal 6,4% del 2016 al 14,1 del 2022, mostrando come sia aumentato il ruolo di questo dispositivo negli ultimi anni.

Ma a cosa servono questi dati? Lo stesso rapporto ci viene in aiuto mostrandoci come le imprese con elevato livello di welfare contribuiscano molto più della media alla crescita dell’occupazione, in particolare se ci si riferisce al saldo tra assunzioni ed uscite nel 2022. Il 43% delle imprese con livello di welfare alto o molto alto, infatti, registrano un saldo di oltre il 3% del totale degli addetti, ovvero risultano essere in forte crescita occupazionale, contro una media del 27,3% sul totale delle aziende partecipanti.

Welfare e giovani

Di queste nuove occupazioni è rincuorante notare come siano i giovani con meno di 30 anni ad avvalersene: se questa fascia di lavoratori riguarda mediamente il 20% delle imprese, infatti, questa percentuale, seppur in misura non particolarmente elevata, è correlata al livello di welfare e si muove da una quota del 18% nelle aziende a livello di welfare iniziale al 22,1% nelle imprese Welfare Champions. Inoltre, nonostante il 29,6% delle aziende italiane non impieghi alcun giovane, tra le imprese che concepiscono il welfare come uno strumento di sviluppo sostenibile questa quota scende al 18%. Si tratta di una percentuale che evidenzia come rimanga ancora molta strada da fare su questo punto, ma anche che perlomeno si sta iniziando a lavorare in merito.

Se in più consideriamo anche la modalità con cui i giovani vengono prevalentemente inseriti nell’ambito lavorativo, ovvero gli stage, i dati ci mostrano una propensione molto più alta delle suddette imprese a ricorrere a questi dispositivi per poi trasformarli in lavoro stabile, soprattutto nel caso di aziende con più di 250 dipendenti. Queste ultime, infatti, hanno un tasso di conversione del 43,8%, ovvero quasi il doppio delle PMI, dove solo il 23,5% degli stagisti viene assunto alla fine del periodo di tirocinio. Ma aldilà delle dimensioni, le rilevazioni sottolineano le enormi differenze tra aziende Welfare Champions e Welfare Accrediter, laddove le prime hanno una quota di stagisti pari al 4,1% degli addetti, contro il 2% delle seconde, e una quota di assunzioni del 40,7% contro il 19,6% di queste ultime.

Welfare aziendale: ruoli di responsabilità alle donne

Il welfare aziendale, infine, ha un impatto anche sull’occupazione femminile (51,2 % a luglio 2022, contro il 69,2 di quella maschile) (Istat, 2022), uno degli aspetti chiave nella lotta alle pari opportunità sul lavoro. Se i dati ci danno una panoramica negativa sul soggetto, visto che le donne rappresentano, in media, solo il 35,7% degli addetti nelle aziende partecipanti (Welfare Index PMI, 2022), anche questi variano a seconda dell’importanza che il welfare aziendale ha per queste ultime.

Nelle aziende Welfare Champions, infatti, la quota di donne arriva al 41%, di cui il 38,7% % con ruoli di responsabilità (intesa non solo come quella dei dirigenti, ma anche dei collaboratori che supervisionano le attività), contro il 29,1% delle aziende a livello iniziale. In media, inoltre, le imprese con nessuna donna tra i responsabili sono il 42% del totale, ma solo il 14% nelle imprese con un livello di welfare elevato. Se consideriamo, poi, i settori produttivi, il terzo settore conta il 56% delle donne in posizioni di responsabilità, seguito dai servizi e gli studi professionali (oltre il 43%). In una situazione ancora poco virtuosa, invece, l’industria, dove la percentuale varia tra il 22% e il 25% a seconda delle dimensioni aziendali.

Ancora tanta strada da fare

Tirando le somme dell’indagine, è evidente che siano stati fatti grossi passi avanti dall’inizio della stessa, anche considerando che quest’anno è stato il primo in cui numerose aziende sono tornate a pieno regime dopo la pandemia. Di questi traguardi, segnaliamo innanzitutto il tasso di crescita delle imprese che considerano il welfare come una strategia di sviluppo sostenibile, punto di partenza perché queste ultime diventino una regola nel mercato. Nonostante ciò, però, è ancora troppo alto il numero di aziende che considerano quest’ultimo come un ambito secondario, e che quindi si posizionano al gradino più basso della scala, seppur siano comunque in forte calo.

Da questo punto di vista, seppur un alone di positività possa essere visto nella crescita occupazionale delle imprese Welfare Champions, rimane ancora molta strada da fare in merito, soprattutto se consideriamo il ruolo dei giovani al loro interno, ancora troppo marginale rispetto quanto dovrebbe. Dal lato della promozione delle pari opportunità e della riduzione delle disuguaglianze di genere a lavoro, non da ultimo, rimane anche qui molto da fare.  Infatti, benché da questo rapporto emergano alcuni elementi positivi (su tutti, il ruolo virtuoso del terzo settore nel dare maggiori responsabilità alle donne), il bilancio degli sforzi sostenuti è ancora insufficiente, in particolare da parte del settore industriale.

Andrea Gruttad’Auria

Riferimenti bibliografici e sitografici

  • Consiglio dell’Unione Europea. (2022, 5 12). Equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza. Consiglio dell’Unione Europea.
  • Istat. (2022). Occupati e disoccupati (dati provvisori)- Luglio 2022. Istat.
  • Istituto per la Ricerca Sociale. (2022). Il progetto reflex: la community del welfare aziendale. Istituto per la Ricerca Sociale, 1- 46.
  • Santoni, V. (2017). Welfare aziendale e provider prima e dopo le Leggi di Stabilità. In F. Maino, & M. Ferrera, Terzo rapporto sul secondo welfare in Italia (p. 91- 118). Torino: Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi.
  • Welfare Index PMI. (2022). Welfare aziendale: un patto sociale per il paese. Welfare index PMI. Rapporto 2022, 1- 191.
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