Le elezioni del 4 marzo hanno fotografato un Paese trasformato, per certi versi quasi irriconoscibile; sono stati tanti i cambiamenti che hanno riguardato la politica e le dinamiche sociali dell’Italia. C’è un punto, però, su cui bisogna soffermarsi: che fine ha fatto la sinistra?

Una sconfitta senza precedenti

Il consenso del Partito Democratico in dieci anni si è dimezzato: dagli oltre 12 milioni di elettori nel 2008 si è passati ai circa 8 milioni nel 2013 e ai circa 6 milioni nel 2018. Si è verificata, quindi, una riduzione di quasi 30% tra una elezione e l’altra. Secondo l’Istituto Demopolis, su 100 elettori che alle politiche del 2013 hanno votato il Partito Democratico solo 60 di loro l’hanno rivotato. 18 su 100 hanno dato il voto al M5s, una minoranza ha votato Liberi e Uguali e 15 su 100 si sono astenuti. Demopolis ha poi analizzato quali leader politici sono stati maggiormente in grado di arrivare alla gente: in base allo studio condotto, il 34% degli intervistati ritiene che sia stato Luigi Di Maio il leader più convincente; si posiziona al secondo posto, con il 21%, Matteo Salvini; ai posti più bassi troviamo, invece, Paolo Gentiloni. Il 4 marzo scorso, il PD e tutti i partiti di sinistra hanno ricevuto una sconfitta senza precedenti. Cos’è successo in questi dieci anni?

Modernità liquida

Per riuscire a comprendere meglio ciò che è accaduto dobbiamo partire dall’avvento della postmodernità alla fine del ‘900 e dalla successiva comparsa della globalizzazione; il sociologo polacco Zygmunt Bauman attribuì al nuovo periodo che andava delineandosi il termine “modernità liquida”: egli sostenne, fino alla sua scomparsa avvenuta circa un anno fa, che nel mondo postmoderno ogni aspetto si presenta sotto forma “liquefatta” e “gassosa”, dalle relazioni all’economia. Nulla è come prima, tutto è mutato: i rapporti, la comunicazione, il lavoro. Il progresso tecnologico e la possibilità di collegarsi rapidamente dall’altra parte del mondo hanno cambiato le dinamiche sociali. Il lavoro, oggi, non cristallizza più l’esistenza dell’essere umano e non ingloba l’individuo per tutta la vita in uno stesso luogo, permettendogli di intraprendere diverse strade. Questa nuova, inedita sperimentazione personale lascia un po’ di spazio, però, anche ad una precarietà costante e ad una sensazione di insicurezza sociale senza precedenti. Si sentono spesso, ad esempio, casi di delocalizzazione industriale. La globalizzazione è anche questa: gli imprenditori italiani possono decidere, oggi, di spostare la propria fabbrica in paesi dove conviene di più produrre e investire. Tale lecita ma anche opinabile scelta si ripercuote sui lavoratori italiani, che si ritrovano senza un posto di lavoro da un giorno all’altro.

Disuguaglianze sociali

Tale instabilità economica, causata sia dalla nuova era “globalizzata” e sia dai governi precedenti che non sono stati in grado di dare delle risposte concrete e che fin troppo volte hanno messo davanti i propri interessi a quelli dei cittadini, ha causato una crescita esponenziale delle differenze; sono cresciute, infatti, negli ultimi decenni, le disuguaglianze sociali che hanno creato squilibri precedentemente non sperimentati. Se, infatti, durante la modernità vi era un dualismo sociale caratterizzato dalla contrapposizione capitalista-operaio, oggi vi sono condizioni sociali diversificate e sfalsate, senza precisa collocazione. L’altro effetto rilevante che la globalizzazione ha lasciato dietro di sé è l’aumento dei flussi migratori: il nostro paese, che rispetto a tanti altri ha dovuto convivere con tale fenomeno solo recentemente, si è trovato totalmente spiazzato e impreparato. Questo quadro teorico, che illustra brevemente ciò che è successo negli ultimi anni, ci aiuta a capire un po’ meglio quello che è accaduto il 4 marzo.

Gli elettori si allontanano

Perché, quindi, i partiti di sinistra hanno ricevuto una sconfitta così dura? Il motivo può essere ricercato nella loro incapacità di affrontare le nuove esigenze del popolo, che come abbiamo appena visto, non sono più quelle di trent’anni fa. Il Partito Democratico ha cercato, durante il suo ultimo governo guidato da Matteo Renzi, di superare la crisi del paese attuando politiche non propriamente di sinistra, allontanando in questo modo molti dei propri elettori; a fianco ci sono quei partiti, invece, che hanno cercato una continuità con le politiche di sinistra da sempre proposte, politiche che però non hanno più la stessa efficacia in un mondo radicalmente mutato. Molti elettori, quindi, un po’ per la delusione e un po’ per la sensazione di non essere più rappresentati dal proprio partito, hanno guardato altrove e questo altrove si chiama M5s. Più di ogni altra cosa è stato il disagio sociale che ha condotto molti a credere in questa nuova forza politica, che è riuscita tramite una comunicazione efficace e il contatto con le piazze, a superare i partiti tradizionali; non per nulla è stato il sud a votare maggiormente per il Movimento 5 Stelle, quella parte d’Italia, infatti, che è riuscita meno a far fronte ai cambiamenti della postmodernità.

I giovani per il futuro

Se il M5s ha saputo inglobare i delusi e i cittadini più in difficoltà, il partito della Lega ha fatto leva su un altro tema rilevante, quello dell’immigrazione. Insomma, sono avvenuti un mix di cambiamenti sociali, economici e culturali che hanno modificato radicalmente la società e che hanno fatto vacillare gli approcci politici tradizionali, soprattutto quelli di sinistra e hanno avvantaggiato quei partiti e movimenti che hanno trovato la chiave giusta per incanalare il disagio popolare. Sempre secondo l’Istituto Demopolis, diretto da Pietro Vento, se il 4 marzo avessero votato solo gli under 45, il M5s avrebbe ottenuto il 47%. Ecco un altro tema di queste elezioni: i giovani. Essi più di tutti non si sono sentiti rappresentati dai partiti tradizionali, specialmente dalla sinistra. Se quest’ultima vuole riacquisire credibilità dovrebbe partire proprio da questo dato e chiedersi come mai essi non si riconoscono più nel loro modo di fare politica.

Giulia Borsetto

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